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Conflitto Israele-Palestina e in Medio Oriente

Cosa succede dopo la decisione di Hamas sugli ostaggi: i nodi ancora da sciogliere del piano di Trump per Gaza

Il via libera di Hamas al rilascio degli ostaggi israeliani ancora in vita apre la strada a un secondo cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Eppure, il piano di Trump è molto lontano dal rappresentare una vera conclusione del conflitto e un piano di pace a lungo termine per la Palestina.
A cura di Giuseppe Acconcia
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Hamas rilascerà i 20 ostaggi in vita e i corpi degli altri 48 ancora nelle mani del gruppo dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023. Questo primo passo in accordo con il piano per Gaza, lanciato dal presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, dovrebbe facilitare un cessate il fuoco nella Striscia sul modello della tregua, negoziata da Joe Biden, ed entrata in vigore lo scorso 19 gennaio. Trump ha parlato di “giorno speciale” per il Medio Oriente e di un’“opportunità senza precedenti”. Il presidente Usa ha chiesto a Israele di cessare immediatamente i bombardamenti nella Striscia di Gaza. Ma ci sono tanti nodi ancora da sciogliere per la completa attuazione del piano, come hanno confermato le dichiarazioni del premier israeliano, Benjamin Netanyahu, che non considera come “positiva” la risposta di Hamas a Trump.

La dichiarazione di Hamas

Il gruppo che governa Gaza non si è ancora espresso sulla richiesta di disarmo e di ritiro completo dalla Striscia, presenti nel piano. Questi due punti preparano alla completa esclusione di Hamas dal governo di transizione di Gaza. Hamas si è limitato ad assicurare il passaggio di potere a un “organo indipendente” fondato sul “consenso nazionale palestinese e il sostegno dei paesi arabi e islamici”. Secondo quanto emerso dalle dichiarazioni ufficiali del gruppo, il rilascio completo degli ostaggi dovrebbe aprire una fase consultiva interna alle fazioni palestinesi per decidere il futuro della Striscia. Il tavolo negoziale dovrebbe tenersi in Egitto e includerebbe anche esponenti di Hamas. Per il gruppo, il futuro di Gaza deve essere basato sul “diritto internazionale, le risoluzioni delle Nazioni Unite e deve essere discusso in un quadro nazionale palestinese”.

I bombardamenti continuano

L’esercito israeliano ha dichiarato di voler portare avanti solo operazioni difensive a Gaza, accogliendo le richieste di Trump. Nonostante le dichiarazioni che fanno ben sperare per una pausa della guerra che va avanti da due anni, fonti palestinesi hanno confermato che decine di attacchi dell’esercito israeliano (Idf) sono andati avanti nella notte di sabato nel centro di Gaza City. “È stata una nottata violenta, in cui Idf ha condotto decine di attacchi aerei e di artiglieria su Gaza City e altre aree della Striscia”, ha confermato il portavoce della Difesa civile, Mahmud Bassal. Secondo lui, venti abitazioni sono state distrutte nei raid. L’ospedale Battista di Gaza City ha confermato di aver ricevuto feriti dal quartiere di Tuffah, inclusi quattro morti. Mentre l’ospedale Nasser di Khan Younis ha confermato che due bambini sono stati uccisi nella notte e otto sono rimasti feriti nell’accampamento che ospita gli sfollati.

Le reazioni internazionali

Positive sono state fin qui le reazioni dei paesi arabi vicini agli sviluppi sull’attuazione del piano di Trump. In particolare, i mediatori di Egitto, Qatar e Turchia hanno salutato con favore la decisione di Hamas di rilasciare gli ostaggi. Il portavoce del ministero degli Esteri del Qatar, Majed Al Ansari, ha però aggiunto che continueranno le “discussioni sul piano”. In particolare, le autorità del Qatar avevano incassato le scuse ufficiali di Netanyahu in seguito al bombardamento di Doha dello scorso 9 settembre contro il tavolo negoziale che aveva messo la pietra tombale sulla mediazione dell’Emirato per arrivare a un cessate il fuoco con Hamas. Dal canto suo, il ministro degli Esteri del Cairo, Badr Abdelatty, intervenendo all’Istituto per le Relazioni internazionali di Parigi, ha dichiarato che è arrivato il tempo per Hamas di disarmare per non dare il pretesto a Israele di “continuare con le uccisioni quotidiane di civili”. Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha detto a tutte le parti coinvolte nel conflitto di “cogliere l’opportunità per chiudere la tragica guerra a Gaza”. Molto positiva è stata la reazione anche del presidente francese, Emmanuel Macron, che, insieme al premier inglese, Keir Starmer, e ad altri capi di stato, aveva riconosciuto lo stato di Palestina pochi giorni fa. Simili dichiarazioni improntate sull’opportunità per un cessate il fuoco sono arrivare dal presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. A fare loro eco, sono giunte poi le dichiarazioni delle principali organizzazioni israeliane che rappresentano le famiglie degli ostaggi che hanno chiesto la fine dei bombardamenti per evitare che i loro familiari vengano colpiti.

Il piano di Trump per Gaza

Lo scorso lunedì il presidente Usa, Donald Trump, e il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, per la quarta volta in visita a Washington dall’inizio dell’anno, avevano annunciato il piano di pace per Gaza in 20 punti. Secondo la proposta in 72 ore dall’entrata in vigore dell’accordo dovrebbero essere rilasciati i 20 ostaggi ancora in vita, dei 48 nelle mani di Hamas, insieme a 250 detenuti politici palestinesi, condannati all’ergastolo. Dopo la dichiarazione di Hamas, sarà necessario valutare se le tempistiche per la liberazione dei prigionieri potranno essere rispettate e le modalità con cui gli ostaggi saranno rilasciati. La liberazione degli ostaggi israeliani tra gennaio e marzo scorso aveva sollevato non poche polemiche perché era stata utilizzata in più occasioni da Hamas come forma di propaganda dell’ala armata del gruppo. Così come i prigionieri politici palestinesi rilasciati e nelle mani di Israele erano apparsi molto provati e hanno denunciato abusi in carcere.

Gaza demilitarizzata

Il piano di Trump fa riferimento alla fine delle ostilità e a Gaza come una zona demilitarizzata senza alcun ruolo di governo per Hamas, i cui membri dovrebbero deporre le armi e lasciare la Striscia in seguito a un provvedimento di amnistia. Tuttavia, non si fa riferimento a tappe precise per il ritiro dell’Idf che comunque rimarrebbe a controllare il corridoio Philadelphi al valico di Rafah al confine con l’Egitto. Secondo le mappe pubblicate dalla Casa Bianca, nella prima fase del ritiro, il 55% di Gaza resterebbe occupato. Il seguente ritiro lascerebbe il 40% del territorio sotto il controllo di Idf. Mentre nella fase finale, verrebbe creata una “zona cuscinetto di sicurezza” con Idf a mantenere il controllo del 15% della Striscia. Tuttavia, secondo controlli incrociati, in molti punti la mappa, resa nota da Washington, non corrisponde con precisione con il reale controllo militare sul campo da parte dell’esercito israeliano. Come se non bastasse, nel piano di Trump non si fa riferimento in modo chiaro neppure al ritorno completo di tutte le agenzie delle Nazioni Unite responsabili per l’ingresso e la distribuzione degli aiuti. Si tratta di uno dei punti più controversi del piano considerando le polemiche per le uccisioni di migliaia di palestinesi in fila per gli aiuti umanitari, distribuiti dalla israelo-americana, Gaza Humanitarian Foundation (Ghf).

Il “Board of Peace”

Un altro aspetto molto criticato da Hamas è la creazione di un così detto “Board of Peace” che escluderebbe l’Autorità nazionale palestinese e includerebbe figure politiche come Tony Blair e Donald Trump per la fase transitoria nel governo della Striscia. Si tratta di un progetto quanto mai coloniale, soprattutto legato a figure molto controverse per la storia recente del Medio Oriente, come l’ex premier britannico Tony Blair, ricordato per la disastrosa guerra in Iraq (2003). Per il funzionario di Hamas, Osama Hamdan, qualsiasi amministrazione straniera della Striscia sarebbe “inaccettabile”. Nel piano, si fa poi riferimento alla creazione di una Forza internazionale di stabilizzazione (Fis) che dovrebbe formare la polizia palestinese con la presenza di militari dei paesi arabi vicini.

Sostegno e scetticismi tra i paesi arabi vicini

In particolare, l’Egitto ha duramente criticato l’occupazione di Gaza City che ha determinato lo spostamento forzato di migliaia di palestinesi, molti dei quali potrebbero voler rifugiarsi nel Sinai. Tuttavia, le deportazioni di palestinesi dovrebbero essere scongiurate se il piano venisse attuato. E
quindi il principale obiettivo negoziale egiziano sarebbe stato raggiunto in questo modo. E così, insieme a Giordania, Arabia Saudita, Turchia e Qatar anche il Cairo ha espresso il suo sostegno per l’iniziativa. Eppure, in Egitto restano non pochi malumori. Per esempio, resta l’incognita della completa esclusione dell’Autorità nazionale palestinese nel governo transitorio di Gaza. Ma soprattutto non sono state ancora superate le critiche espresse da Tel Aviv agli Stati Uniti, secondo le quali, l’esercito egiziano starebbe militarizzando il Sinai in preparazione di una guerra causata dalle deportazioni dei palestinesi di Gaza, in violazione del Trattato di pace del 1979.

D’altra parte, l’Egitto di al-Sisi continua ad assumere un atteggiamento ambiguo rispetto alla causa palestinese. Per esempio, lo scorso 17 settembre a Doha ha definito Israele un paese “nemico” nonostante gli strettissimi rapporti economici, soprattutto in materia di forniture di gas, che ha con Tel
Aviv. Non solo, sebbene nei primi mesi dopo il 7 ottobre 2023 siano state permesse mobilitazioni per la Palestina in Egitto, in seguito sono state centinaia gli arresti, inclusi di attivisti della Global March to Gaza lo scorso giugno e del comitato locale della Global Sumud Flotilla al Cairo pochi giorni fa.

Uno stato palestinese sempre più lontano

Infine, il piano di Trump non fa un chiaro riferimento alla creazione di uno stato palestinese, dopo il riconoscimento in questo senso di Francia, Gran Bretagna e altri paesi membri delle Nazioni Unite. Nonostante ciò, la destra israeliana è molto poco propensa a voler accettare le pur limitate concessioni con l’obiettivo di cancellare completamente i territori palestinesi e di perseguire l’annessione della Cisgiordania per impedire la nascita di uno stato palestinese. D’altra parte, i politici palestinesi a Gaza e in Cisgiordania, in questa fase, sono propensi ad accettare compromessi per una pausa della guerra dopo due anni di conflitto e un massacro costato la vita a oltre 66mila palestinesi. Tuttavia, come lo scorso gennaio, si tratterebbe solamente di un rallentamento del genocidio o di una pausa della guerra.

Il via libera di Hamas al rilascio degli ostaggi israeliani ancora in vita apre la strada a un secondo cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Eppure, il piano di Trump è molto lontano dal rappresentare una vera conclusione del conflitto e un piano di pace a lungo termine per la Palestina. Non è chiaro quale ruolo avrà Hamas nel futuro di Gaza e neppure se davvero l’esercito israeliano lascerà la Striscia. Non è presente una vera apertura per l’autodeterminazione dei palestinesi né per un meccanismo di ingresso e distribuzione degli aiuti umanitari davvero indipendente.

Due quesiti restano senza risposta: quanti morti palestinesi dovremo ancora piangere prima che la Palestina ottenga il suo stato e la sua indipendenza? I palestinesi possono davvero accettare qualsiasi cosa in nome di una tregua, che per molti versi suona come una resa incondizionata, dopo la distruzione di Gaza e 66mila morti?

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Giuseppe Acconcia è giornalista professionista e docente. Insegna Stato e Società in Nord Africa e Medio Oriente all’Università di Milano e Geopolitica del Medio Oriente all’Università di Padova. Dottore di ricerca in Scienze politiche all’Università di Londra (Goldsmiths), è autore tra gli altri de “Taccuino arabo” (Bordeaux, 2022), “Le primavere arabe” (Routledge, 2022), Migrazioni nel Mediterraneo (FrancoAngeli, 2019), Il grande Iran (Padova University Press, 2018).
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