Perché non riusciamo a toglierci dalla testa Fotografia di Geolier

Quando tengo lezioni di critica nelle scuole superiori grazie a una bellissima iniziativa chiamata Taccuini Musicali di Alfredo, ai ragazzi del terzo e quarto anno rivelo una regola piuttosto ovvia di qualsiasi lavoro di analisi e commento, che però risulta sempre meno palese di fronte all’impoverimento del dialogo culturale generalista: bisogna considerare ogni elemento che ascoltiamo in una canzone come il frutto di una scelta esplicita e intenzionale dell’artista, e non solo come qualcosa messo lì "perché ci stava bene". Questo vale anche per i contenuti laterali e accessori alla canzone, il cosiddetto para-testo: una copertina, per esempio. La copertina di Fotografia di Geolier ci mostra una cosa in modo molto chiaro: un pianoforte. E allora noi, se vogliamo andare al cuore del pezzo, dobbiamo concentrarci su quello strumento. Cosa fa, come si esprime, che ruolo ha e perché ci fa pensare al modo in cui organizziamo i nostri ricordi.
Il pianoforte è chiaramente lo strumento-guida della canzone. La traccia parte con suoni che sembrano quelli di avvio di un nastro magnetico, un artefatto che forse vuole riprodurre il rumore di uno studio di incisione (uno studio dell’altro secolo, andrebbe aggiunto): questa decisione andrebbe forse ricondotta a un ritrovato interesse per l’analogico e per il rumore, anche solo come patina di verità e onestà e che invece in altri casi (anche molto pop, nel caso di Justin Bieber) viene ricercato con maggiore cura. Ma, terminato questo istante di programmata casualità, arriva il pianoforte.
Il piano suona inizialmente solo due accordi, alternati molto lentamente e presentati con arpeggi discendenti disconnessi: sono accordi di settima maggiore, dei quali abbiamo parlato in lungo e in largo come ingredienti essenziali per dare alla canzone un tono elegiaco, una tristezza composta, di chi guarda indietro a qualcosa che non c’è più piuttosto che a chi osserva con disperazione un abisso appena spalancatosi davanti ai suoi occhi. C’è una sorta di dolcezza, insomma, nel dolore. La stessa che si poteva sentire nei primi versi della strofa di Brividi, dove peraltro torna lo stesso "giro" di due accordi (primo e quarto grado della scala, per i secchioni qui presenti), che conferiscono la stessa aura vagamente sacrale, sicuramente sospesa, che permette al sapore agrodolce delle note di assumere la parvenza di un’illusione: lì era "ho sognato di volare con te", qui si parla invece dello scatto di una fotografia.
E allora vale la pena problematizzare anche il senso di questo gesto e di questo oggetto: la fotografia. Un'attività talmente comune da non essere quasi più percepita nella sua potenza da noi, che da qualche generazione siamo non più solo protagonisti ma anche testimoni e documentaristi delle nostre vite. Eppure, il fascino poetico della foto resiste anche a queste trivializzazioni. Come mai?
Nel suo saggio Sulla fotografia, Susan Sontag diceva: "Ogni fotografia è un memento mori. Fare una fotografia significa partecipare della mortalità, della vulnerabilità e della mutabilità di un’altra persona (o di un’altra cosa). Ed è proprio isolando un determinato momento e congelandolo che tutte le fotografie attestano l’inesorabile azione dissolvente del tempo" (trad. Ettore Capriolo). Insomma, la fotografia non è tanto l’arte più realistica, bensì quella che più realisticamente ci fa percepire il passaggio del tempo come forza che fa crescere, degradare e infine perire ogni cosa umana.
Perfino le fotografie dell’era digitale, disciolte nei nostri flussi continui di content, quando in qualche modo ritornano a galla, ci fanno provare uno spleen per niente antiquato, anzi molto contemporaneo: chi ero in quell’immagine, con chi sono stato fotografato, perfino il luogo in cui lo scatto è stato effettuato, possono non esistere più, e non solo in modo metaforico; solo una delle molteplici crisi d’identità che il presente può offrirci. E del resto la musica è stata sempre affascinata dalla fotografia. Ben 67 canzoni della storia del Festival di Sanremo menzionano le foto, e se risaliamo indietro nel tempo fino ai primordi di ciò che chiamiamo musica popolare, troviamo già menzioni ben consapevoli del valore della fotografia, come quando nel 1923 Irving Berlin si chiedeva cosa se ne sarebbe potuto fare di una foto, se non per rimpiangere una persona che non c’era più.
La musica funziona in maniera non troppo diversa: un’incisione fonografica immortala una canzone e la incastona in un determinato hic et nunc. Non esiste una canzone veramente "senza tempo", a dispetto delle iperboli di noi critici: dal modo in cui suona alle scelte liriche, dalle tecniche di registrazione all’uso di certi strumenti al posto di altri, ogni particella di una canzone ci permette di datarla. Questo è il motivo per cui artisti retromaniaci come The Lemon Twigs devono provare un divertimento infinito a comporre, suonare e registrare "come se fosse" il 1973, perché ingannare il tempo è la definizione stessa di intrattenimento – e su queste passioni ipernostalgiche e la loro possibile contaminazione da parte dei furbastri dell’intelligenza artificiale abbiamo già detto qualcosa.
Eppure, proprio perché bloccata per sempre e isolata dal flusso del tempo in cui viviamo, la canzone può ancora parlarci e risultare attuale – vallo a dire a tutte le star d’altri tempi, da Kate Bush e i Pavement ai Fleetwood Mac, riscoperte regolarmente su TikTok. Ed è per questa capacità di confondere la nostra percezione del presente che ci piace riconoscere pattern, ritrovare motivi e ricollegare la nostra esperienza di ascolto alla nostra memoria.
Per esempio, ora che le reti neurali nella corteccia prefrontale del nostro cervello sono state messe all’erta per una somiglianza con Brividi di Mahmood e Blanco, potremo trovare familiare anche quel passaggio di tonalità della stessa tipologia di accordo (il quarto grado o sottodominante) dal maggiore al parallelo minore: il duetto lo presentava al termine della strofa ("non scappare da qui, non lasciarmi così"); Geolier lo infila sia in coda a una strofa (la seconda, dopo 1:59) ma anche al termine del ritornello (dopo 1:23), usandolo però da solo e senza lo scalino dell’accordo maggiore, presentandolo in modo decisamente più brutale, come un La bemolle minore fuori dalla scala, come una figura fuori posto e che non riconosci subito dentro una fotografia. Questa semplice sostituzione non è certo una tecnica introdotta da Brividi, e anzi l’abbiamo individuata almeno tre volte solo nell’ultimo Festival di Sanremo, anche nella canzone vincitrice di Olly: ma una canzone e una fotografia ci muovono in altro modo, alla ricerca di somiglianze anche dove sono solo casuali.
Per esempio, nel riff discendente di pianoforte che compare nelle strofe (la prima volta a 0:23) possiamo risentire un frammento del motivo strumentale di Trouble dei Coldplay, peraltro eseguito sulla stessa posizione armonica: l’accordo (minore) di terzo grado o mediante, quello che l’accordo di primo grado settima maggiore in qualche modo "ingloba", che viene arpeggiato qui soltanto ogni paio di battute. In entrambe le canzoni, ora più essenzialmente, ora (nel caso dei Coldplay) con una maggiore complessità di intreccio, quel motivo torna regolarmente: la sua essenza così chiaramente minore bagna di lacrime il resto del giro armonico, dando una sfumatura negativa al racconto.
In questo primo elemento, questo hook che viene messo a fuoco prima di tutto il resto della scena, così, vediamo già lo sviluppo finale: "Per te sono solo una fotografia". Come un’immagine che prende forma nel liquido di sviluppo, è bastato un input per scatenare una reazione che – se vogliamo – è perfino troppo prevedibile. E per questo, per la familiare sensazione di una canzone che finirà in disastro, ci sentiamo consolati in quanto ascoltatori abitudinari.
Cosa vogliano dire esattamente quell’arpeggio discendente o quell’accordo sostituito dovremmo chiederlo direttamente agli autori della canzone, che con Geolier vede accreditati i produttori Poison Beatz e Sottomarino e l’ubiquo Davide Petrella. Ma sicuramente non possiamo considerarli elementi casuali, puramente decorativi, e allora possiamo ragionare su come fanno sentire noi che li ascoltiamo.
Avvertendo quell’accordo instabile, così chiaramente fuori contesto e desideroso di una risoluzione, avvertiamo la posizione precaria del narratore (letteralmente, visto che Geolier ci dice "quello là è il mio posto") e diventiamo partecipi di questo spaesamento. Avvertendo quel riff di pianoforte, magari dopo aver visto anche l’artwork con il pianoforte stesso, ci ritroviamo a pensare alla situazione del protagonista, che racconta di dover scrivere una canzone per riportare alla luce i ricordi della persona amata, in assenza di fotografie: le canzoni che si scrivono sul pianoforte, spesso e volentieri; i ricordi che tornano a intervalli come un riff; riff discendente che degrada inesorabilmente, come una memoria iniziata da un’immagine piacevole (la persona amata) e poi rivelatasi nella sua decadenza (la consapevolezza dell’assenza).
Nelle canzoni e nelle fotografie nessun dettaglio è lasciato al caso, se l’artista sa il fatto suo. Geolier, in questa incarnazione da autore di ballate, ha dimostrato più volte le sue capacità. Forse mai in una maniera così smaccatamente pop, ma certamente con competenza. Sta a noi spettatori appiccicare a quei dettagli le nostre memorie, e percepirli ora come espressione immortale, ora come segnale di un’epoca ben precisa. Si tratta di un dilemma che ogni canzone pop si trova a fronteggiare: è pensata solo per noi, o ha una funzione anche per i posteri che la riprenderanno in mano e noteranno il segno del tempo passato? Fotografia è solo una torch song nella lunga lista di serenate in assenza che scriviamo da secoli, in particolare un’esponente delle canzoni sulle fotografie; oppure è l’ultimo caso di un rap italiano che negli anni ‘20 usa sempre più gli strumenti del pop, ne replica le soluzioni armoniche, ne riprende lo sfogo melodico e dinamico alla Ultimo, e fa riferimento alla nostra ossessione contemporanea per l’immagine? Entrambe le cose, risponderemo fra qualche anno, quando le canzoni e le foto avranno aspetti diversi, ma noi continueremo a scriverle, scattarle, osservarle, ascoltarle in cerca di noi stessi.