
Scegliere una canzone sola per rappresentare la storia di Ornella Vanoni significa farsi violenza come lo sarebbe scegliere una canzone sola per raccontare David Bowie. Entrambe persone di teatro oltre che di musica, e non è affatto un caso.
Potremmo balzare dalle canzoni della mala alle sofisticate e brillanti composizioni di Bruno Canfora, dalla traduzione del repertorio cantautorale esistenzialista italiano agli adattamenti e sintesi delle molte sfaccettature del Brasile. Vanoni è stata una voce credibile in ciascuno di questi ruoli musicali, che – come disse – a differenza di quelli teatrali “la facevano volare”. E noi volavamo con lei, custode di un’epoca in cui essere artisti voleva prima di tutto aiutare il pubblico a esercitare la fantasia.
La fantasia per prendere un sentimento o una situazione in cui ci si riconosce (un amore sbagliato, tanto per cambiare) e da lì alzarsi per guardare più lontano o più a fondo, comprendere una verità che le semplici parole non possono cogliere. Questo slancio in alto, quest’impossibilità di arrendersi alla banalità, è ciò che troviamo nelle canzoni di qualsiasi suo periodo, un’autorizzazione implicita a trascendere il quotidiano. E c’è una canzone che è riuscita a prendere questo concetto e applicarlo perfettamente in modo musicale. Quella che per molti è la canzone definitiva della Vanoni, sicuramente la più ascoltata nell’epoca dello streaming per almeno un paio di ragioni. E nonostante la stessa cantante ne fosse un po’ stufa, vale la pena guardare insieme cosa rende L'appuntamento una traccia immane ed eterna.
Notoriamente, la canzone fu scritta da Roberto Carlos ed Erasmo Carlos, e interpretata da quest’ultimo nel 1969. Il brano originale, Sentado à beira do caminho (“Seduto sul ciglio della strada”), è diventato un classico della musica brasiliana, che segnò la fine di un periodo di integrazione di idee, suoni e motivi del rock americano nella cultura pop brasiliana (la cosiddetta Jovem Guardia, che anticipò il Tropicalismo). Anche alla base di questo romantico e sconsolato commiato stanno idee armoniche di un classico recente della musica leggera statunitense: Honey scritta da Bobby Russell e resa famosa da Bobby Goldsboro nel 1968 è una delle tracce simbolo della musica leggera radiofonica americana, un brano tanto popolare (numero 1 della Billboard) quanto detestato dai suoi detrattori.
Ma l’ossatura delle strofe ha una sua logica incontrovertibile: un giro arpeggiato tra l’accordo di casa e quello di arrivo (il primo e il quinto grado, per i secchioni) che indugia un po’ troppo nelle dolci malinconie di settime maggiori e del secondo grado, un accordo decisamente minore. Eppure, questa sua gommosa tristezza ha qualcosa di vuoto. Basta paragonarla a Sentado per capire cosa le manca: un ritornello degno di questo nome. La genesi di questo ritornello ha una storia affascinante di per sé. Dopo un veloce adattamento, infatti, la composizione da parte di Roberto Carlos si arenò proprio su questo punto. Per mesi la scrittura non avanzò finché – ha raccontato il musicista – un mattino si svegliò con la frase giusta da inserire in quel breve e iconico refrain. Armonicamente parlando abbiamo una progressione che è la quintessenza del movimento in avanti: sottodominante – dominante – tonica (per i nerd che ci seguono), cioè un passetto alla volta, ma decisi e spediti.
Nulla di rivoluzionario, anzi, è proprio questo il bello: sono gli accordi centrali de La Bamba di Ritchie Valens e di Wonderful World di Sam Cooke, come di Sugar Sugar e di Like a Rolling Stone, l’alto e il basso, il tragico e il leggero, il commerciale e l’astratto, parte del lessico rock come le congiunzioni sono parte di ogni grammatica. Infilare questa sequenza così energetica in un brano così languido è come dargli una scossa, che ci permette di andare dritti alla conclusione del nostro ragionamento. Le parole, arrivate in sogno con la melodia a Roberto Carlos come arrivarono a McCartney quelle di Yesterday, fanno da compendio perfetto per questa sensazione di attesa eterna: un’epifania che si scioglie in un bicchiere, “Preciso acabar logo com isto, Preciso lembrar que eu existo, Que eu existo, eu existo, eu existo”, cioè “mi devo ricordare che esisto”.
Ma l’adattamento di Ornella Vanoni riesce a fare anche di meglio. Decisamente di meglio. Da una parte ci sono le parole di Bruno Lauzi: “Ho sbagliato tante volte ormai”, uno degli incipit più efficaci di sempre, perché – come osservava la stessa cantante – si potrebbe applicare alla vita di tutti, da un bambino di 11 anni a una 91enne che ne ha viste abbastanza per riempire dieci vite. “Di ogni brano arriva alla gente una frase sola, in cui si riconosce. Mi sono sempre chiesta perché L’appuntamento piacesse così tanto. La risposta è nella prima strofa: "Ho sbagliato tante volte ormai…. Perché tutti hanno sbagliato nella vita”, disse qualche anno fa al Corriere della Sera. Ma l’identificazione è solo una parte, dicevamo. Il resto sta alla fantasia e alla capacità di leggere nella realtà qualcosa di più profondo. Un appuntamento sbagliato come simbolo di una vita sprecata in troppa speranza, riposta nelle persone e nelle cose sbagliate, va oltre la pura rappresentazione dell’amore sbagliato: è una sentenza definitiva sulla condizione umana. Siamo destinati a compiere sempre gli stessi errori, lo sappiamo fin troppo bene. E per questo la struttura ossessiva circolare della canzone funziona alla perfezione, con questa sua ostinata oscillazione delle strofe. Ancora meglio che nell’originale, se possiamo permetterci.
In Sentado l’inutile e frustrante attesa della persona amata sta al centro delle attenzioni del cantante, che si sente talmente passivo e impotente da pensare di scomparire. Un’immagine molto poetica, a cui manca qualcosa: una condanna eterna, quasi sofoclea, alla speranza e alle sue illusioni. Smettiamo di esistere, sì, ma solo perché abbiamo smesso di credere. Questa è la pesante illuminazione a cui giunge L’appuntamento. Ma, come funziona nelle migliori canzoni, questo non lo sentiamo solo con le parole. L’arrangiamento del maestro napoletano Gianfranco Lombardi, che da quel punto in avanti avrebbe aiutato Ornella Vanoni per un luminoso decennio, compie una scelta che a Erasmo Carlos non venne in mente: alzare di un semitono ogni strofa. Usando il refrain strumentale come un punto-e-a-capo, l’orchestra nasconde di volta in volta un passetto in avanti. Questo permette alla melodia di mantenere la sua freschezza, certo. Ma soprattutto, nel leggero e progressivo sforzo che richiede alla voce della cantante rivediamo l’esasperazione: non si può aspettare in eterno, a un certo punto anche il più ostinato degli illusi cede, stremato dalla fatica.
Priva di un bridge che funga da architrave, L’appuntamento è una canzone circolare, che nel bilanciamento tra la strofa malinconica e il ritornello risoluto trova il suo morboso, affascinante equilibrio, una leva di Archimede che potrebbe farla fluttuare in eterno nello spazio profondo. In questo ingranaggio poetico Vanoni lancia un granello di sabbia: sufficientemente piccolo da non essere notato al primo ascolto, ma abbastanza ruvido da far capitolare ogni certezza quando ci si fa caso. Forse è proprio questo che cerchiamo nell’amore: sbriciolarci fra le dita, condannarsi a quella non-esistenza che la protagonista sembrerebbe aver evitato. Se non fosse per l’epilogo della canzone, quando le parole non bastano più e Ornella Vanoni affida l’emozione alla pura voce: dan-dan-dan-dan ed ecco che anche solo per qualche secondo sentiamo ancora un altro giro, in alto di un’altra mezza nota. “Senza fine”, per citare un’altra canzone, finché non smetteremo di custodire in noi una piccola anima autodistruttiva, sulla quale un semplice cambio di tonalità ci ha fatto riflettere mentre pensavamo ad altro.