Perché ascoltiamo solo canzoni che ci assomigliano: da Geolier al fenomeno Bad Bunny

Ti ricordi quale canzone dominava le classifiche italiane dieci anni fa? Esattamente dieci anni fa, il 17 novembre 2015, la canzone più ascoltata d’Italia era "Hello" di Adele. Non eravamo soli, bisogna aggiungere: quel singolo schizzò (e rimase) al primo posto virtualmente di ogni classifica globale. Escluse poche, pochissime altre eccezioni (quattro paesi, se ci fidiamo dei compilatori della pagina Wikipedia), ogni angolo al mondo che contenesse una misurazione attendibile degli ascolti, degli acquisti e dei download aveva ospitato "Hello" sul gradino più alto. Dieci anni dopo non si può dire lo stesso della canzone di lancio del disco (artisticamente deludente) "The Life of a Showgirl" di Taylor Swift, un successone commerciale che tuttavia non arriva al primo posto di ben otto grandi e medi mercati discografici (Brasile, Messico, Polonia, Romania, Finlandia, Ungheria e soprattutto Francia e Italia).
Dalla monocultura globale alla frammentazione dei gusti
Non stiamo facendo la classica guerra tra ragazze del pop, non è una questione di qualità: troveremmo scarti simili paragonando i più grandi successi del 2015 ("See You Again" di Wiz Khalifa e Charlie Puth) e del 2025 ("Ordinary" di Alex Warren). Perché i fenomeni musicali non sono più così globali? Certo, i tempi sono cambiati. La musica era già liquida dieci anni fa, ma oggi ci sono dieci volte tanti utenti di Spotify (713 milioni di cui 281 milioni di abbonati), senza contare tutti gli altri servizi. Questo è ciò che gli studiosi dei mercati culturali in America hanno chiamato "la fine della monocultura", giocando con la monocoltura agricola: a furia di diffondere lo stesso prodotto, il mercato si è saturato, e i gusti si sono balcanizzati. A livello globale, questo ha implicato una perdita di biodiversità multiculturale di quasi tutte le parti alte dei mercati musicali del mondo.
L’Italia, in questo, è tra i casi più lampanti di autoreferenzialità e autosufficienza musicale: più il mondo si globalizza, più le abitudini si localizzano, e noi siamo primi insieme a Turchia, Nigeria, Grecia, Egitto, Finlandia tra le nazioni che consumano solo ciò che gli somiglia. Oggi solo 16 (15 se si esclude "Mio Cristo Piange Diamanti" di Rosalía e il suo omaggio a Donizetti) canzoni su 100 parlano lingue straniere nella classifica FIMI: esattamente 10 anni fa erano 76 su 100.
Insomma, quello che spopola da una parte del mondo non necessariamente si tradurrà in modo automatico in un successo anche nel proprio angolo di provincia dell’impero. Ma la faccenda non riguarda solo la distribuzione: è che ormai ascoltiamo quasi soltanto quello che ci somiglia.
Il bisogno di riconoscimento e credibilità
Parte del fascino del pop sta nel riconoscimento: per non parlare solo alla sua cerchia di coetanei e simili, però, un bravo artista pop farà canzoni sufficientemente universali da permettere a chiunque di immedesimarsi, e sufficientemente particolari da non risultare generiche e vaghe. Ci rivediamo in quello che ascoltiamo da sempre, e per questo ne facciamo una bandiera della nostra personalità e delle nostre abitudini: vai a chiederlo a qualsiasi creatore di una campagna pubblicitaria! Solo che non ci riconosciamo più tanto nella musica che non parla la nostra lingua.
Da un certo punto di vista, non c’è nulla di strano. Le neuroscienze dicono in modo abbastanza certo che la comprensione del testo è essenziale per la percezione del mood della canzone, specie nel caso di canzoni tristi (e le canzoni sono sempre più tristi). Avere accesso a questa parte di contenuto emotivo risulta sempre più importante, specie se si assecondano le logiche delle piattaforme che – come spiegato dalla giornalista Liz Pelly nel suo libro "Mood Machine" – operano sull’assunto che la musica sia prima di tutto un alteratore di umore.
Ci piace quello che riconosciamo subito come a noi simile, ed è anche una questione di credibilità. Qualsiasi periodo di ansia tecnologica ed economica, come la congiuntura attuale, apre le porte a un discorso che abbiamo già accennato parlando di intelligenza artificiale nella musica: la crisi di credibilità e il desiderio di cercare ciò che ci risulti il più autentico possibile. Anche se non sappiamo bene di cosa stiamo parlando, predichiamo un desiderio di sincerità, onestà, schiettezza piuttosto che altri valori associati alla musica pop come: il divertimento, la teatralità, lo spettacolo. Per quanto le crisi globali e l’arrivo dell’intelligenza artificiale generativa abbia accelerato e globalizzato queste esigenze, un ragionamento del genere si è affacciato già da un po’ in un panorama musicale che è sempre passato di crisi in crisi: quello della discografia indipendente.
Tra la metà e la fine degli anni Zero, tutti i gruppi e cantautori “indie” italiani sono passati all’italiano, come gli Zen Circus o gli Ex-Otago, Colapesce (dalla sua prima band AlbanoPower alla carriera solista) o Pierpaolo Capovilla (dagli One Dimensional Man al Teatro degli Orrori); molti altri ci hanno direttamente debuttato, da Le Luci della Centrale Elettrica agli Offlaga Disco Pax, e così via. Chiunque si ritrovi a sfogliare interviste con artisti indipendenti, in quegli anni, troverà ripetute parole come “credibilità”: non si può scimmiottare gli inglesi e gli americani, se si vuole rimanere credibili.
C’è da sottolineare che, almeno all’epoca, l’industria dei concerti permetteva agli artisti che avessero macinato migliaia di chilometri di aspirare a un barlume di sostenibilità economica: incontrare faccia a faccia i propri ascoltatori, anche in un’epoca che si faceva già piuttosto digitale e virtuale, era necessario per poter andare avanti. Il "passaggio all’italiano", insomma, può farsi risalire a molte ragioni artistiche, come la salita del valore culturale di riferimenti come Lucio Battisti o Vasco Rossi rispetto a riferimenti come Pavement o Nirvana: ma alla radice penso vi sia stato soprattutto un bisogno di riconoscimento all’interno di una messa in discussione degli equilibri nelle transazioni culturali ed economiche di un mercato caracollante, dentro un mondo che quanto più sembrava globale, tanto più ci sfuggiva di mano. L’altro era sempre meno il simbolo di un possibile incontro con qualcosa di nuovo ed eccitante, e sempre più l’esponente di una cultura sconosciuta e difficile da decifrare.
L’ascesa delle identità locali e dei dialetti nel pop
Oggi, l’appello a "parlare come si mangia" risulta perfino superfluo, tanto siamo concordi sull’idea che le personalità politiche e le celebrità, e tutti i prodotti culturali che consumiamo siano simili a noi, cioè al nostro minimo comun denominatore. Nella musica questo ha prodotto un risultato ancora più estremo: l’identità culturale nazionale non basta più, e ove possibile chiediamo agli artisti di presentarci una versione regionale, locale, rionale di come ci percepiamo. Questo ha prodotto un ritorno alle radici che non deve confondersi con il reale lavoro di ricerca folk degli studiosi etnografia musicale, ma semmai costituisce il sapore che deve dominare nel cocktail del nuovo pop.
Così, quello che probabilmente rimarrà come l’album di maggiore e più duraturo successo dell’anno, "Debí Tirar Más Fotos" di Bad Bunny, è un inventario di musiche tradizionali portoricane che, a differenza del cosmopolita reggaeton, non possono far altro che essere ricondotte alle campagne e alle città di Puerto Rico. E mentre ci chiediamo se anche la rinnovata popolarità del country negli Stati Uniti non si possa ricondurre a un’ansia di questo genere (forse con venature razziali), possiamo guardare ad alcuni dei progetti più acclamati (e in alcuni casi più venduti) della musica italiana degli ultimi due anni.
Il rapper più popolare in assoluto è Geolier, un artista che arriva dappertutto non "nonostante la lingua napoletana", ma – viene da dire – "per merito della lingua napoletana". Nel rap la credibilità è sempre stata importante: nelle tue rime devi dire chi sei ("keep it real", per dirla all’americana). Parlare nella propria lingua, in questo senso, è un merito ulteriore: il riflesso di una verità biografica che non teme di mostrarsi come tale, anche se effettivamente dividerà in due il pubblico tra chi comprende e chi no. E se guardiamo nel pop cantautorale questa concessione alle identità regionali presenta altri casi eclatanti.
"Amuri luci" di Carmen Consoli, interamente in siciliano (tranne un brano in greco e uno in latino), ha ricevuto consensi generali e la cantantessa lo sta felicemente portando dal vivo in Italia. La Niña ha ricevuto un apprezzamento critico unanime per il suo disco "Furèsta", premiato come miglior album in dialetto alle Targhe Tenco in una categoria che prevedo si affollerà sempre più di lavori pop, e con questo tour l’artista ha raggiunto palchi (come di recente quello del Fabrique a Milano) dove non sarebbe mai arrivata con le canzoni in inglese del suo precedente progetto "Yombe". Anche Anna Castiglia, nel suo album "Mi piace" premiato come migliore opera prima, ha una canzone in dialetto. E che dire delle contaminazioni fonetiche del gallurese nel disco "Spira" della straordinaria Daniela Pes? E di molti altri artisti, come il friulano Massimo Silverio, il veneto Banadisa, e molti altri che lavorano nel confine tra sperimentazione e musica popolare addentrandosi nelle lingue degli antenati?
C’è bisogno di suoni, cioè anche di parole, che suonino il meno universali possibile. Contravvenendo alle logiche di fondo del pop, cerchiamo un briciolo sporco di verità in un mondo che sembra fin troppo efficiente a servirci i suoi prodotti industriali levigati, perfetti, filtrati, targettizzati, formulari. Circondati da venditori troppo sgamati, ci rinchiudiamo nelle cose familiari, di cui sentiamo di poter misurare la verità a pelle. A costo, talvolta, di non capire più cosa ci stiano dicendo.