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Opinioni

Museo egizio, il caso Greco-Lega è uno scontro politico che emargina l’archeologia e il merito

Lo scontro politico tra la Lega e il direttore del Museo Egizio Christian Greco relega l’archeologia in un angolino.
A cura di Claudia Procentese
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Christian Greco (LaPresse)
Christian Greco (LaPresse)

Dopotutto il conto tra centrodestra e museo egizio torinese era ancora aperto. Inevitabile che, prima o poi, la miccia già accesa nel lontano 2018, facesse (ri)esplodere il caso Greco. È da ricercare in quel febbraio di cinque anni fa il “casus belli”, quando Giorgia Meloni, all’epoca leader di Fratelli d’Italia, in pieno tour elettorale si presentò fuori il secentesco palazzo di via Accademia delle Scienze per contestare l’iniziativa di offrire l’ingresso gratis ai visitatori in coppia di lingua araba. Una discriminazione verso i cristiani a detta della devota Meloni, una promozione per avvicinare le persone che in Egitto sono lontane dal loro patrimonio secondo il direttore Christian Greco. Si confuse il termine arabofono, che riguarda la lingua, con quello di musulmano, che riguarda la religione, la fede islamica, dimenticando i quindici milioni di copti egiziani, ovvero la più vasta comunità cristiana dell’intero Medio Oriente e che parla arabo. Lo scivolone di Meloni non la fece indietreggiare di un solo passo e il faccia a faccia on the road si concluse tra un “temo che non ci convinceremo a vicenda” e un “venga a trovarci quando vuole”, tra un sorrisino di circostanza e una stretta di mano falsa quanto una banconota di un euro.

Oggi Meloni non è più all’opposizione, non ha il tempo di fare incursioni casarecce, ma è anzi il momento dello spoil system che convoglia le istanze programmatiche e concretizza i nuovi riposizionamenti. Anche quando il rinnovo dei vertici non dipende dal Governo. Perché, ricordiamolo, nel 2004 il Ministero per i beni e le attività culturali ha affidato la gestione del museo torinese ad una apposita fondazione con autonomia decisionale e di bilancio, di cui fanno parte la Regione Piemonte, la Provincia e la Città di Torino, la Compagnia di San Paolo e la Fondazione Crt. Querelle conclusa? Per nulla. Il braccio di ferro sull’eventuale cambio all’Egizio, o messa alla porta del direttore scomodo che dir si voglia, è come un fiume carsico, ormai in piena, ed è bastato dargli voce per riaffiorare in superficie. A inizio settimana, infatti, punzecchiato in un’intervista sul Corriere Torino l’assessore regionale piemontese al Welfare, Maurizio Marrone (FdI), pur riconoscendo a Greco “doti manageriali non comuni”, tira in ballo “figure potenzialmente più qualificate” escluse dalla direzione e da un posto nel Cda del museo. Il riferimento sfacciato è all’egittologo Francesco Tiradritti che nel 2014 partecipò al concorso per direttore arrivando sesto e nel 2021 accettò la contestata nomina, sostenuta da Forza Italia, quale rappresentante della Regione nel consiglio di amministrazione per poi, ritenuto “non opportuno” dalla presidente della Fondazione Evelina Christillin, dimettersi preferendo la silenziosa carriera di studioso e archeologo sul campo.

Frizioni, dissapori, vecchie ruggini. È questo il pasticciaccio alla base del fuoco incrociato di accuse e difese in cui ognuno vuole dire la sua, dal vice-segretario della Lega, Andrea Crippa, il quale parla di “un direttore di sinistra che ha gestito il museo egizio di Torino in modo ideologico e razzista, contro gli italiani e i cittadini di religione cristiana” al sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi che chiede la riconferma di Greco perché “ha fatto un ottimo lavoro” fino all’ex sindaca cinquestelle di Torino, Chiara Appendino, che “interrogherà” in Parlamento il ministro Gennaro Sangiuliano per costringerlo a prendere una posizione netta. Intanto Greco incassa la solidarietà di 92 egittologi che firmano una lettera di elogio ed incoraggiamento. Educato, perbene, studioso di fama internazionale, generoso divulgatore. Questo il ritratto di Greco fatto dai suoi collaboratori e da chi frequenta le sale museali dove non è insolito trovarlo a fare da guida a gruppi di turisti o studenti. Ha macinato record e conquistato riconoscimenti internazionali. Ricerca, accessibilità, inclusione sono le parole-bussola della sua dirigenza. Dopo il restauro del 2015 il museo dedicato all’arte e alla civiltà nilotica, disposto su una superficie di 12mila metri quadri, in cinque piani e con i suoi oltre 40mila pezzi espone gruppi statuari, mummie, papiri, arredi funerari e di uso comune, animali imbalsamati.

Museo Egizio (LaPresse)
Museo Egizio (LaPresse)

Eppure le esternazioni di Marrone trovano proseliti che si palesano nei commenti social della pagina Facebook del museo (come il “vada a dirigere il museo dell’immigrazione a Lampedusa”), quasi inscritte nell’alveo di una presunta uguaglianza, intesa come paradigma di pari opportunità, cioè come a dire ‘adesso governiamo noi di destra e possiamo finalmente fare quello che prima faceva la sinistra’. In una staffetta che vede continui conflitti nel presente, ma non prevede mai vere rotture con il passato. Cambiano lo slogan e la bandiera, resta uguale la prassi. E la provocazione, l’affondo diventano il modo a portata di mano per disarticolare le vecchie gerarchie e poter apporre subito il nuovo marchio politico dopo la traccia lasciata da Dario Franceschini, il più longevo ministro dei beni culturali nella storia della Repubblica, per questo definito “Re Sole” e incolpato dagli avversari di deriva assolutistica. Insomma, l’acqua che si imbuca nella terra per poi riemergere, il fenomeno tra luci ed ombre, si sa, è sempre quello.

Tiradritti, dal canto suo, raggiunto al telefono da Fanpage.it, si trincera nel più assoluto riserbo. «Non sto seguendo la questione, sono impegnato nella pubblicazione dei dati di scavo della tomba di Harwa, una campagna durata dal 1995 al 2018, la pubblicazione e condivisione dei dati è il primo dovere di un archeologo» chiosa perentorio. Un “no comment” sincero che sembra non celare antichi risentimenti o il timore di reagire maldestramente. «Semplicemente non mi interessa» ribadisce. Professore a contratto di Egittologia all’università di Chieti, Tiradritti rivendica il diritto a tirarsi fuori da una schermaglia politica che, a dirla tutta, ruberebbe tempo prezioso a qualsiasi scienziato. Una vicenda che è riuscita a mettere in secondo piano la presentazione, martedì, dell’ampliata digitalizzazione dell’archivio fotografico, custode finora di tremila immagini, liberamente consultabili online, che documentano le campagne di scavo ad inizio Novecento, condotte da Schiaparelli e Farina, del museo egizio più antico del mondo (l’anno prossimo si festeggia il bicentenario dalla fondazione). E non il secondo per importanza dopo quello del Cairo, come spesso si sottolinea, ma complementare, cioè a Torino ci sono testimonianze che al Cairo sono assenti. Ad esempio, il museo del Cairo possiede l’unica tomba intatta di un faraone, Tutankhamon, mentre il museo di Torino espone l’unica tomba intatta di un funzionario, l’architetto Kha. Per questo il decifratore dei geroglifici egizi, Jean-François Champollion, all’Egizio torinese nel 1824, per indicarne l’unicità scrisse: “La strada per Menfi e Tebe passa da Torino”.

Tuttavia, nell’attualità si gioca ormai una partita tutta politica dove l’archeologia è relegata agli angoli, mentre al centro dello scontro sta la gestione del potere che dalla notte dei tempi cerca legittimazione nella cultura, di cui invece va difesa l’autonomia. Casi mediatici come questo appaiono imbarazzanti, alla vigilia delle Giornate europee del patrimonio, domani e dopodomani, durante le quali musei e siti archeologi saranno impegnati a rendere accessibili gli scavi in corso, a condividere dati ed esperienze, a rendere partecipi i cittadini dell’impegnativo e delicato mestiere d’archeologo, superando quell’abuso di sensazionalismo che è l’altra faccia della propaganda partitica. L’affaire Greco diventa, così, uno scontro politico che ancora una volta emargina l’archeologia. Sembra un paradosso, ma non lo è, se nel discorso che infiamma animi e menti si dimenticano le faticose condizioni di lavoro degli archeologi nei cantieri, il carente investimento nella ricerca, lo studio e la formazione preclusi ai meno abbienti, gli organici ministeriali ridotti per mancanza di risorse, la progettualità affidata al solo tempo di un mandato istituzionale. La polemica di questi giorni è indice di una crisi che rischia di diventare condanna e non essere più opportunità. La strada per riaffermare l’archeologia quale strumento di conoscenza e di riconoscimento dei suoi professionisti, oggi più di ieri, passa da Torino.

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