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La Famiglia: “Il nostro rap era rivalsa contro chi parlava di Napoli ladrona. Oggi hanno paura a parlare di Gaza”

La Famiglia celebra i 20 anni di Pacco: ristampa del disco che ha rivoluzionato il rap napoletano, tra campionamenti mediterranei e la demolizione degli stereotipi violenti legati alla città di Napoli.
A cura di Vincenzo Nasto
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La famiglia, foto di Andrea Bembo
La famiglia, foto di Andrea Bembo

Si parla di storia, di collettività e di spazi in cui la musica hip hop si struttura ancora attraverso un messaggio di rivalsa. Pacco de La Famiglia, un album che 20 anni fa ha posto le basi del rap partenopeo, vede di nuovo la luce nel 2025 con la ristampa, in un periodo in cui la lingua napoletana e l’immagine della città ha attraversato un processo di riscrittura, forse altrettanto stereotipizzante. Ma la storia di Pacco si intreccia con l’attentato dell’11 settembre, con la cultura napoletana negli Stati Uniti e con la visione di una scena rap napoletana che ha forse più di 50 anni di racconto. Qui l’intervista ai tre membri: Polo, Shaone e Dj Simi.

In che contesto nasce Pacco e come si arriva a questo disco?

Polo: Quando nel ’98 uscì 41º parallelo fu un treno in faccia per tante persone, stavamo facendo una cosa che non era mai stata fatta prima. Non c'era una parola in italiano e soprattutto parlavamo in dialetto in anni in cui a Napoli non venivano date speranze.

Era un periodo in cui gli stereotipi monopolizzavano il racconto della città?

Polo: Da Napoli ladrona a Napoli pericolosa, questi stereotipi ci hanno accompagnato al nord per tanti anni. In quel momento, rappresentavamo questa rivalsa: una voce rabbiosa che voleva dire io esisto e son anche altro. Rappresento 4000 anni di storia, io rappresento una lingua, non un dialetto. Lo sapevano a New York e non in Italia.

In che senso?

Polo: Io, ma anche Simone, giravamo il mondo, soprattutto gli Stati Uniti, nei vari negozi di dischi trovavi sia la musica italiana, sia la musica napoletana. Siamo sempre stati un genere a parte. Come negli Stati Uniti, New York rappresenta un mondo diverso.

E sarebbe dovuto arrivare Pacco nel 2001.

Polo: Saremmo dovuti uscire a settembre, infatti avevamo già una prima stesura. Poi l’evento che ha cambiato la storia del mondo, l’attentato dell’11 settembre.

In che modo ha cambiato la vostra storia?

Polo: Il mondo si ferma e si fermano anche le pubblicazioni: ci viene detto che dovremmo aspettare la primavera successiva. Io in quel momento stavo già cominciando a frequentare New York, avevo una ragazza lì, e così comincia a passare del tempo.

Cosa cambia?

Polo: Tutto, basti pensare che poi il disco uscì nel 2004 con una distribuzione indipendente. Del disco pubblichiamo il video di Amici e arriva subito al circuito mainstream, partendo come sempre da Radio Deejay. Già in passato era stata l’unica radio a puntare su di noi: rappresentava "l’intellighenzia" radiofonica e sono sempre stati un passo avanti agli altri.

Chi arrivò dopo?

Polo: Radionorba, che all’epoca rappresentava una vera realtà del sud Italia, non solo della Puglia.

E invece, dal punto di vista dei suoni? C’erano campionamenti di suoni più mediterranei rispetto a 41° parallelo?

Polo: Basti pensare già ad Amici che è un campione di una canzone di Mario Merola. In generale, però, rispetto al precedente Pacco è un album più suonato. Con 41° parallelo avevamo investito tanto nei campionamenti, anche perché avevamo Dj Simi che è stato campione italiano di scratch. Con Pacco ci volevo avvicinare a una melodia partenopea.

Qual è la visione che oggi il pubblico ha de La Famiglia?

Polo: La gente dopo 30 ci chiama a suonare ancora, i nostri live sono sold out e chi è venuto al concerto de La famiglia sa bene che ritornerà volentieri. Il nostro è un concerto in cui non solo si divertono, ballano tutto il tempo, ma poi ascoltano anche dei messaggi positivi. Ci interessa parlare di cose importanti, intelligenti, di aiutare il prossimo. Cerchiamo di trasferire messaggi di unità, uguaglianza, valori che sono alla base dell’hip hop.

E cosa sentite di aver trasferito nelle nuove generazioni?

Polo: Abbiamo dato spazio a tanti ragazzi che oggi ci guardavano con ammirazione e siamo stati da esempio per loro. Tutti i principali nomi della scena napoletana sono passati qui, tranne Geolier perché è troppo giovane.

Di chi hai un ricordo nitido?

Polo: Penso a Clementino. A 12 anni ci fece un agguato (ride ndr) a Piazza del Gesù per farsi firmare un disco in un negozio. Oggi lavoriamo assieme, siamo grandi fratelli e ho una stima infinita. Ma anche tanti altri, che hanno preso la propria strada, il proprio stile, la propria tribù.

C’è qualcosa che non hanno capito di voi in quel periodo?

Polo: Dal punto di vista del messaggio, credo che qualcuno abbia sottovalutato il fatto che abbiamo rappresentato una realtà che è riuscita a esprimere un messaggio "fuori dal ghetto". Abbiamo dimostrato che un'altra vita era possibile, soprattutto grazie all’arte: ballo, scrittura, musica, produzione, graffiti.

In quell’album compare anche Enzo Gragnaniello.

Polo: L’avevamo conosciuto grazie a Red Ronnie: ci eravamo trovati in una puntata in cui era anche lui ospite del Roxy Bar. Ci propose di cantare il ritornello di Odissea e fu qualcosa di speciale: facemmo anche un video e un singolo per le radio, però all’epoca Caterina Caselli non ci diede il permesso. Di quel momento rimane solo un cd per le radio. Soprattutto nelle collaborazioni, gli artisti vengono fermati altrimenti ci sarebbe più condivisione. Adesso anche di più perché sono diventate vere e proprie multinazionali.

Dj Simi: Per me è giusta la regolamentazione tra le collaborazioni, anche perché una label ha bisogno di rispettare dei percorsi di investimento, giustamente. Poi con Enzo è nata un’amicizia particolare, lo abbiamo accompagnato a eventi come il Luigi Tenco Festival all’Ariston. Ci fu una fusione tra l’hip hop e la musica folkloristica mediterranea: due idee che si sposavano benissimo. Enzo ci ha trasferito delle sonorità anche arabe e greche, rispetto a 41° Parallelo che si reggeva su fondamenta newyorkesi.

In Pacco, compare anche un’altra ballad come Dimmi di sì.

Polo: Abbiamo ripreso degli elementi della Nuova Compagnia di Canto Popolare e quelle melodie fecero impazzire New York. Mi ricordo quando ero lì e feci la bancarella, presentando lo stato della musica napoletana negli Stati Uniti, tutti si fermavano per ascoltare questa canzone. Tutti volevano comprare il disco per ascoltarla a ripetizione.

Secondo voi, com’è cambiato il napoletano e il suo utilizzo musicale? Soprattutto in questo periodo.

Polo: Il napoletano è una lingua che si evolve con la città, con Napoli. Il napoletano è una lingua piena di parole greche, spagnole, francesi, anche americane. Quindi significa che col passare del tempo il napoletano lo cambieremo sempre. Si evolverà sempre parallelamente alla città.

Per voi qual è stato il primo utilizzo?

Polo: Sicuramente riprendere la natura onomatopeica dell’hip hop americano. Quello ci permetteva di utilizzare il napoletano in maniera ritmata e noi andavamo a tagliarlo sempre di più. La cosa fondamentale era allontanarsi dai neomelodici che in quegli anni erano padroni della città. Negli anni poi c’è chi è stato influenzato da altro, penso solo al rap francese e all’utilizzo di assonanze, più che rime. La cosa più importante però rimane quello: bisogna dire qualcosa di intelligente.

Siete stati i primi a utilizzare il dialetto in Italia?

Polo: Forse non i primi, ma nelle prime cassettine di rap italiano c’eravamo noi e i Briganti in Sicilia. L'espressione dialettale voleva anche rappresentare un'appartenenza a una terra. Per noi era anche un mezzo per ribadire che la descrizione di Napoli era parziale, non veniva raccontata tutta la verità. Abbiamo segnato la strada anche nel mondo dei graffiti, basti pensare a quante persone ci guardavano e imitavano.

Solo in passato?

Polo: In verità anche oggi: molti graffittari hanno preso ispirazione da noi, alcuni hanno anche lasciato nostri disegni. Abbiamo creato una strada, ma è stata durissima.

Quali erano le difficoltà principali?

Polo: Economiche per di più: comprare il campionatore, i vari piatti. Ma sapevamo di farlo per gli altri, non per noi singoli, ma per una scena che faceva del rap un suo codice. La scena napoletana rappresentava un po’ tutta la Campania, ma in generale il Meridione. E questo lo vedevamo anche nei live all’estero.

Qual è il primo ricordo?

Polo: Il primo live a Zurigo in Svizzera. C’era una fila di un’ora di persone, fuori dai nostri camerini. Gente che piangeva perché lì avevano ascoltato solo roba americana o al massimo i rapper tedeschi, mentre noi rappresentavamo i napoletani o gli espatriati dalla loro terra. Non abbiamo avuto bisogno di inseguire i social, di inseguire il “nuovo”: le persone ci amano per quello che siamo. Eravamo tutti nello stesso cerchio, tutti sullo stesso piano.

Dove si è perso il concetto di collettività nell’hip hop?

Polo: Con i social media, abbiamo perso uno spazio collettivo. Prima c’era la piazza come luogo d’incontro in cui ti riconoscevi per quello che facevi, adesso che non hai più bisogno di scendere, di sentirti rappresentato in quel modo, si è persa la misura dell’insieme. Poi l’identità numerica ha fatto il resto.

In che senso?

Polo: Se la misura dell’artista incomincia a essere legata al numero di followers, si perde il centro della questione.

Dj Simi: Anche perché il successo sociale del rapper, ha completamente influenzato anche l’arte dello stesso. Non si è più cantanti ma personaggi. Ci sono anche delle eccezioni, come Clementino, ma è difficile vedere profondità in questa scena: solo superficialità. E questo si vede anche nella natura delle proprie posizioni.

Polo: La gente ha paura di prendere posizioni. Basta osservare quanti grandi artisti hanno preso posizione sulla Palestina. Incredibile come non si riesca a dire niente su una cosa così drammatica e attuale che sta accadendo davanti ai nostri occhi da ormai due anni.

Dj Simi: Tra l’altro, il rap è nato come un linguaggio di protesta, anche ricreativo, però con dei valori. Alcuni fondamenti, come la pace e l’unità, adesso sono stati sostituiti.

Mi interessa molto come sia cambiato anche la forma di condivisione di quest’arte, come la metafora del rap come cerchio e non come piramide.

Shaone: Per esempio, il cerchio fa parte di ogni cultura ancestrale. Alcuni delle tradizioni delle tribù indigene, anche quelle africane, avveniva in cerchio. Tutti questi codici si sono trasferiti nell’hip hop, ma anche la sua natura inclusiva. Mentre, attualmente, ciò che ci rappresenta è rettangolare: il cellulare. Questo oggetto ha una natura performante, maschile e fallica: noi entriamo in contatto con lo smartphone grazie al dito e allo scroll. Diciamo due nature diverse, che si legano anche a sensi diversi, come il tatto o l’ascolto.

La mancanza di spazi condivisibili, fisici e pratici, è anche uno dei motivi per cui la visione collettiva dell’hip hop è assente tutt’ora?

Shaone: Diciamo che resistono ancora determinati posti, ma proprio perché sopravvivono ai contesti social, sono meno visti. La scena napoletana non è solo resistente, ma anche resiliente, si esprime in potenza. La cultura hip hop a Napoli, non solo sopravvive ma è anche in ottima salute.

Polo: Anche se non vengono notati, abbiamo tra i migliori rapper, ma anche freestyler italiani. Però è vero che mancano degli spazi, almeno rispetto a prima. A Napoli c’erano locali come il Notting Hill che faceva concerti 4 giorni a settimana. Adesso si sono persi quegli spazi in entrata.

Credi che questa sia anche una barriera all’ingresso per chi ha voglia di lanciarsi in quest’arte?

Polo: Beh, oggi per fare i concerti devi avere i numeri: i palazzetti, gli stadi. Non esistono più luoghi di incontri per fare dei party tutte le settimane. I locali commerciali sono diventati troppo costosi per le piccole realtà. Ci dovrebbero essere i centri sociali, ma…

Ma?

Polo: Sono totalmente cambiati, c’è un clima di repressione totale.

Shaone: Secondo me ci vorrebbe più ascolto. Abbiamo un’esperienza cinquantennale e l’importante per noi è trasferire il valore che c’è dietro queste discipline. Non abbiamo l’esigenza di riempire gli stadi, ma di avere degli spazi dove si fa cultura. Altrimenti si crea una distanza tra chi scende con un cartone in strada per fare breakdance, anche senza tecnica, o con un microfono per fare rap, rispetto agli eventi che riempiono gli stadi.

Qual è il gap generazionale che vedete?

Polo: La curiosità. Da una parte, la gente può pensare di sapere delle cose su di me, grazie al cellulare, anche se io non esisto in quel mondo. Dall’altro lato, musicalmente, noi andavamo a scavare, a farci chilometri per guardare centinaia di dischi, copertine: si faceva un gran lavoro di ricerca e consumo. Oggi è tutto più raggiungibile e questo implica un interesse minore. Anche per conoscere i testi.

Shaone: Il gap è anche educativo. Prima ogni ogni personaggio, ogni individuo, ogni uomo o donna che si avvicinava alla cultura hip hop portava con sé il suo strumento, la sua cultura e la sua essenza. Faccio sempre lo stesso esempio: se nel nostro gruppo c’era un ragazzo che veniva bullizzato a scuola perché aveva una voce molto flebile, diversa dal solito, grazie al rap diventava qualcosa di diverso, unico che lo rendeva un “padreterno” a fare rap.

Polo: Rispetto alla dimensione mainstream, che si lega alle esigenze di mercato.

In che cosa si può rappresentare la vostra eredità?

Polo: Mi piacerebbe vedere tutta la scena di Napoli, dagli inizi fino ad ora. Questo è il mio grande sogno e sarebbe la grande eredità di questo gruppo. Sono uno che nel 2005, con i primi gruppi rap che sono usciti su Facebook, ho fatto una compilation di rap napoletano. Sarebbe bello che ognuno mettesse il proprio ego da parte per questo tipo di unione.

Insomma, un po’ ciò che è successo lo scorso anno negli Stati Uniti per i 50 anni dell’hip hop.

Shaone: Ecco, a proposito: un giorno si ratificherà che noi veniamo dagli ’80 e non dai ’90 e che abbiamo forse più di 50 anni di storia. Ci interessa muovere l’aspetto culturale, ma è giusto ribadire ciò che è stato. Non siamo i più grandi e i più forti, ma la nostra storia è importante.

Polo: Anche perché potremmo aiutare anche le vecchie leve a non fare i nostri stessi errori. Anche perché il rap è anche un game, un gioco di cui bisogna conoscere le regole, gli ostacoli e gli imprevisti.

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