I Patagarri: “Dopo il Concertone minacce da Israele. I compromessi? Bisogna accettarli per il bene del progetto”

L'ultima ruota del caravan è il primo disco ufficiale dei Patagarri, il gruppo composto da Francesco Parazzoli (tromba e voce), Jacopo Protti (chitarra), Daniele Corradi (chitarra), Giovanni Monaco (clarinetto e sassofono) e Arturo Monaco (trombone e percussioni). La band reduce dalla fortunata partecipazione a X Factor, dove si sono classificati al terzo posto finale, ha avuto un secondo picco di notorietà lo scorso 1° maggio, sul palco del Concertone del Primo Maggio a Roma, quando hanno chiuso la loro esibizione di Hava Nagila, un antico canto ebraico, con il coro "Palestina Libera", che ha creato non poche critiche nei loro confronti: "Sono arrivate anche molte minacce e insulti, persino messaggi privati da Tel Aviv e simili". Qui l'intervista alla band.
Che compromesso avete stretto con voi stessi o con la vostra band: qual è il vostro "patto con il diavolo"?
Il patto con il diavolo può assumere molti significati, ma per noi rappresenta forse l’accettazione di alcuni compromessi, magari non sempre piacevoli, ma necessari per far andare avanti il progetto. Come nella vita, tutti stringono un po' la mano al diavolo. Alcuni in modo più grave, altri meno. È una metafora, certo, ma dice qualcosa di vero su ciò che affrontiamo.
E il progetto com'è nato?
È nato a Milano, quasi per caso, nei mercati rionali. I due chitarristi già si conoscevano e si esibivano lì. Poi mi sono unito anch’io, e abbiamo iniziato a suonare per strada, nei mercati e nelle piazze. Era un modo per condividere la musica e restare in contatto con le persone. Studiavamo, sì, ma suonare per strada ci ha formato. Alcuni di noi si sono conosciuti proprio così: io per esempio ho incontrato Giovanni Arturo proprio suonando per strada. Il bassista, che conoscevo da Mantova, si è unito successivamente, anche lui disposto a partire con noi per i nostri “viaggi busking”, tour estivi in cui suonavamo ovunque girando in auto.
La storia di Willy è quella di un pusher con una famiglia assente, che scappa dalla noia della quotidianità, con un riferimento al personaggio di Roald Dahl (Willy Wonka): c'è una morale in questo brano?
Più che una morale, è la descrizione di una situazione che tende a ripetersi. È ciclica, non c'è una vera risoluzione. Il brano finisce come inizia, lasciando un senso di qualcosa che continua irrisolto. Noi cerchiamo di provocare, non di dare soluzioni. Raccontiamo storie, e poi ognuno le interpreta.
E parlando di Sogni invece, c’è quel passaggio che dice "Chissà se i fascisti sognano al contrario". Cosa intendevate?
Quella frase riflette sull’universalità dei sogni. I sogni sono una costante, restano anche quando la vita cambia. Ci accompagnano, come i ricordi. E poi c’è l’idea che il nostro vissuto influenzi ciò che sogniamo, e viceversa. Quel “sognano al contrario” è una domanda aperta. Non è importante spiegare tutto: alcune cose si comprendono da sole.
Torniamo un attimo indietro, a X-Factor. Che impatto ha avuto su di voi? Ha cambiato gli equilibri del gruppo?
Sì, all’inizio sicuramente ci ha scombussolato. È un’enorme macchina, con tante persone che lavorano dietro le quinte. All’inizio non eravamo nemmeno tutti d’accordo sul partecipare. Poi abbiamo deciso di buttarci dentro, puntata dopo puntata. L’abbiamo presa con leggerezza, che secondo me è il miglior modo per affrontare esperienze del genere. Ci sono state discussioni, ma l’equilibrio siamo riusciti a mantenerlo, affrontando ogni problema. Usciti da lì, siamo stati catapultati in un mondo nuovo: manager, burocrazia, ritmi diversi. Anche lì abbiamo dovuto ritrovare un nuovo equilibrio, ma ce la stiamo cavando bene.
Insomma, "il patto con il diavolo". E invece musicalmente come si potrebbe descrivere un progetto come L'ultima ruota del caravan?
È una fusione di ciò che studiamo, ascoltiamo e amiamo suonare. C'è un po’ di tutto: manouche, swing, klezmer, ma anche influenze moderne, elettronica, rap, pop. Cerchiamo di sperimentare e trovare un nostro suono. E lo facciamo sempre suonando tutto dal vivo, senza basi, senza clic in cuffia. Vogliamo restare legati a un’idea di autenticità, anche se è più complicato e meno immediato.
Perché avete deciso di suonare Hava Nagila al Concertone del Primo Maggio?
Il Primo Maggio è la festa dei lavoratori e nella categoria dei lavoratori si possono anche mettere le condizioni di ciascuno di noi, per esempio la proprietà di una casa, che è strettamente collegata allo stipendio. Ci sembra ingiusto anche non utilizzare il Primo Maggio per ricordare anche gli ultimi, quelli che vivono in Palestina e stanno subendo un massacro. Ci sembrava giusto spendere una parola per loro, perché vengono spesso oscurati o raccontati con sufficienza, come se lo loro vite fossero di serie B. Poi Hava Nagila è un brano che suonavamo da tempo, anche prima del programma: lo facevamo in strada o ai primi matrimoni.
Conoscevate la storia del brano?
Inizialmente no, ma poi quando l'abbiamo scoperto ci è sembrato giusta cantarla, facendo il coro "Palestina Libera" alla fine, soprattutto per ciò che sta accadendo adesso. Sono cose agghiaccianti e offrono uno spunto di riflessione. Il brano celebra la presenza e legittima la presenza delle prime comunità ebraiche in Palestina nei primi del ’900, ma oggi, con quello che sta accadendo, il testo assume un significato inquietante.
In un'intervista con i Pinguini Tattici Nucleari si discuteva del ruolo e della responsabilità dell'artista, anche in merito al messaggio che manda e alla sua valenza: voi come vi ponete?
Dipende. Ogni artista ha il proprio motivo per fare arte. C’è chi lo fa per esprimersi, chi per portare un messaggio politico. Non si può giudicare chi non vuole esporsi. Ma se un artista non prende posizione per paura di perdere consensi o subire ritorsioni, allora sì, è un problema. L’autocensura è un peccato contro sé stessi, e anche contro lo spirito dell’arte, che dovrebbe essere libera.
Proprio l’autocensura è un concetto molto attuale, soprattutto nel mondo della musica. Vi è capitato di ricevere critiche o supporto dopo quell’episodio?
Sì, chiaramente su Instagram abbiamo ricevuto centinaia e centinaia di messaggi. Molti ci hanno supportato, perfino alcune comunità palestinesi. Ci hanno mostrato solidarietà e li abbiamo ringraziati. Però sono arrivate anche molte minacce e insulti, persino messaggi privati da Tel Aviv e simili. Per lo più provenivano da persone comuni. Tutta questa vicenda ha generato anche parecchia attenzione mediatica, coinvolgendo anche alcuni personaggi noti… ma forse è meglio non parlarne troppo. In generale abbiamo capito che la cosa migliore da fare è staccarsi un po’ dai social. Non leggere tutto, non seguire ogni commento. Se ti metti a guardare ogni messaggio, ogni reazione, rischi solo di farti del male. Quindi, meglio lasciar perdere.
Vorrei tornare un attimo sull’album. C’è un passaggio dell’ultima canzone che mi ha colpito molto: il racconto del "balordo che è stato arrestato per aver rubato un pollo". Mi incuriosisce sapere da dove nasce questa storia, come vi è venuta l’idea?
A me è sempre piaciuto raccontare storie all’interno dei brani. Anche se oggi ti dicono che una canzone deve poter essere ascoltata in qualsiasi punto, senza per forza seguire una narrazione, a me piace quando c’è una scintilla che parte dall’inizio e arriva alla fine. Quando c’è un racconto, con un percorso. È chiaro che non è una scelta commerciale, perché il testo cambia direzione, la musica pure. Però è uno stile che ci è sempre piaciuto. Nei posti dove suonavamo, magari al ristorante o al bar, funzionava: partiva la storia e la gente si fermava ad ascoltare, a bere con noi. In generale scrivo io i testi, e questa storia mi è venuta in mente vivendo a Milano. Giovedì, per dire, ho visto scene assurde per strada. Io vengo da Mantova, che è pur sempre una cittadina, ma lì è davvero brutale. Davanti a certi negozi di vestiti o di cinema vedi cose difficili da spiegare. Ovviamente nel brano è tutto raccontato con un tono ironico, leggero. A volte la realtà è pesante, ma attraverso la musica riesci a trasmettere il messaggio senza appesantirlo troppo. Questo era il senso.