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Covid 19

Franco Arminio: “Contro il coronavirus torniamo nei piccoli borghi”

Franco Arminio, poeta e paesologo da 40 anni in prima linea nella lotta per salvare i borghi italiani e le aree interne abbandonate dalla politica. “La pandemia ha, oggettivamente, aperto degli spazi per un importante intervento pubblico. Lo Stato ha concentrato i servizi come scuole e ospedali nelle grandi città ma oggi le metropoli si stanno dimostrando inospitali e pericolose. Prendersi cura dei piccoli paesi dell’Appennino, dal nord al sud, non è un regalo ma un servizio che si offre all’Italia”.
A cura di Davide Falcioni
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“Che fine hanno fatto gli intellettuali, ora che ce n’è bisogno? Dov’è un pensiero radicale, rivoluzionario, adesso che dovremmo progettare il futuro?”. È un grido di rabbia quello di Franco Arminio, poeta e paesologo da ormai 40 anni in prima linea nella lotta per salvare i paesi italiani, le aree interne, i piccoli borghi pieni di storia e cultura ma abbandonati dalla politica. Quando andava di moda la “Milano da bere”, quando tutti sognavano la vita nelle grandi città, Franco Arminio scriveva i suoi “Appunti su un paese invia d’estinzione” da Bisaccia, in provincia di Avellino. Ed è da Bisaccia che ci risponde dopo una passeggiata solitaria per le vie del paese. È un fiume in piena, come dimostra la produzione di poesie in questi giorni, e si capisce fin dalle prime parole che l’adagio latino “Primum vivere deinde philosophari” lui vorrebbe rovesciarlo. Prima filosofare poi vivere. Prima pensare, progettare l’Italia del futuro, ragionare su come dovrà essere il Paese dopo la pandemia. Altrimenti che vita sarà?

Il coronavirus si sta rivelando particolarmente aggressivo nelle aree d’Italia più densamente abitate e industrializzate. Alcuni studi sostengono che vi sia una relazione diretta tra inquinamento e presenza del virus. Può essere questa un’occasione per ripensare alla funzione delle aree interne? Penso agli Appennini, dorsale del paese, ai borghi abbandonati…

Oggi più che mai è necessario ragionare di quei luoghi. Dei borghi, dei paesaggi, dei boschi, dell’Appennino. Occorre rigenerare la strategia per le aree interne perché la pandemia ha, oggettivamente, aperto degli spazi per un importante intervento pubblico. Lo Stato negli anni ha abbandonato le aree interne del nostro paese: ha concentrato i servizi come scuole e ospedali nelle grandi città ma oggi le metropoli si stanno dimostrando inospitali. Prendersi cura dei piccoli paesi dell’Appennino, dal nord al sud, non è un regalo ma un servizio che si offre all’Italia. Penso ad esempio alla mia regione, la Campania, con un’immensa quantità di persone concentrate nell’area costiera e il deserto intorno. La forma paese invece è la dimensione ideale, la migliore per abitare il mondo. Il problema è che non è buona per il capitalismo: allora dobbiamo decidere se continuare a costruire un mondo per ricchi oppure per cittadini, uomini e donne. Certo, questo non è semplice se i dominati assumono la poetica dei dominanti, come è accaduto finora…

Da decenni le aree interne sono state abbandonate. Gli investimenti pubblici si sono concentrati nelle città, mentre nei piccoli centri sono state chiuse scuole, ospedali, strade. Stefano Boeri – in un’intervista a Repubblica – ha proposto  un progetto nazionale in cui le metropoli dovrebbero adottare i borghi. Sei d’accordo? E non si rischia di farli diventare esclusivamente luoghi di seconde case per ricchi, quando invece la loro vocazione è ben diversa?

Ben venga che qualcuno di noto sollevi il tema. Io ne parlo dal 1981, da quando scrissi un articolo intitolato “Appunti su un paese in via d’estinzione”; in quegli anni le mie idee sembravano folli. Il problema della proposta di Boeri è che forse lui  pensa alla montagna vicino a Milano, o ai borghi liguri, dove si può immaginare di ristrutturare qualche casa e costruire alberghi diffusi. Nella gran parte dell’Appennino centrale e meridionale è ben diverso: qui i paesi non sono scomparsi, esistono ancora e spesso sono abitati anche da oltre tremila persone. Il tema è come tenerli in vita. Gli investimenti che possono arrivare dalle città non bastano, occorre puntare sull’agricoltura, ridare valore alla vita dei contadini, perché se a Bisaccia arriva un milanese ma se ne va un ragazzo nato qui non me ne faccio niente; i paesi non possono essere un outlet della ruralità.

L’antropologo Vito Teti parla di restanza.

Sono d’accordo con lui. Oggi restare non è una debolezza ma va considerato un atto di coraggio, deve finire il mito dell’altrove come fosse un paradiso. Teti parla dei borghi calabresi, che per sopravvivere non hanno bisogno di turisti per un fine settimana ma di servizi e di contadini. Dove c’è terra devono esserci contadini.

Oggi, con la pandemia di coronavirus, i paesi hanno una grande occasione…

Io sono molto fiducioso, i paesi non moriranno e il covid-19 li aiuterà. Penso a me: io sono sempre uscito a fare due passi perché a Bisaccia è impossibile assembrarsi, anche volendo. Ci dicono ogni giorno che nei prossimi anni dovremo rispettare il distanziamento sociale, ma questo è impossibile a Roma o Napoli mentre è facile nei borghi. Il problema è che non vedo ancora segnali di vita dalla politica e dalla cultura, quella delle aree interne non è stata assunta come questione centrale. Qualche speranza, però, potrebbe arrivare dall’impegno del ministro per il sud Provenzano, che mi ha voluto come suo consigliere.

Immagino che, vivendo in un paese, tu abbia avuto un rapporto molto stretto con gli anziani, i testimoni della nostra storia. All’improvviso, da qualche mese, abbiamo scoperto che per molti gli anziani sono sacrificabili. Che effetto ti ha fatto questa mancanza di rispetto?

Nella mia vita incontro soprattutto vecchi: considero la morte di un uomo di 80 anni una tragedia, perché con lui se ne vanno 80 anni di storia. Una volta gli anziani erano il punto di riferimento della società grazie alla loro saggezza, mentre oggi sono diventati inservibili, vengono chiusi nelle case di riposo come scarti da rottamare. La considero una visione barbara: dovremmo invece tenerceli in casa fino alla fine, accudire i nostri genitori dovrebbe essere un compito sacro. Invece, come tutti i più deboli, vengono abbandonati: succede con loro, con gli immigrati, i disabili, i carcerati, i rom, i malati mentali… scarti, solo scarti.

E’ quello che ha denunciato più volte il Papa, condannando la cultura dello scarto.

Esattamente, ma devo dire che dai cattolici mi sarei aspettato molto di più in questo periodo, invece anche loro hanno accettato che venissero chiusi i cimiteri. Rispetto alla morte c’è stato un atteggiamento molto superficiale, la dimensione sacra non è stata tenuta in giusta considerazione. Voglio dire, che senso ha tenere aperto un supermercato e chiudere un cimitero? Perché non posso recarmi sulla tomba di mia madre? Quale assembramento potrei generare in un camposanto? Ecco, siamo di fronte a un atteggiamento economicista, ma per fortuna una società è fatta anche di tensione verso il sacro.

In un articolo di qualche anno fa hai scritto che un paesologo “produce visioni senza l’obbligo che siano coerenti, senza il rigore e la consequenzialità del lavoro scientifico. Il terreno in cui si muove da sempre la mia vita e la mia scrittura è un terreno che frana”.  Come organizzeresti, da poeta e da paesologo e non da politico, le città e i borghi del futuro?

Purtroppo non è realistico immaginare la fine del coronavirus domani, e non c’è neppure un modello di sviluppo alternativo al capitalismo già disponibile. La modernità che io immagino sarebbe plurale: ci sarebbe spazio per Milano ma anche per Bisaccia, per Roma e Palermo ma anche per un piccolo borgo dell’Appennino. In pochi altri paesi europei come nel nostro si possono conciliare mondo arcaico e modernità. Non dobbiamo dimenticare il patrimonio che abbiamo: non solo le grandi città d’arte, ma anche le cime alpine, gli aranceti, la biodiversità. La mia stella polare non sarebbe Milano, ma magari Castelluccio di Norcia.

In una tua poesia scrivi: “Fuori dell'umano/c'è vita e il vento non soffia/più per noi, la natura ci ha già messo da parte”. La paura di cambiare si rivelerà un ostacolo invalicabile?

Non ce la faremo se non cambieremo il nostro approccio rispetto al Pianeta: penso che non ci sia nessuna “normalità” a cui tornare perché quella normalità è stata la nostra condanna. Il nostro era un paese pieno di tumori, povertà ed enormi diseguaglianze. L’aria in Pianura Padana era fuorilegge anche prima del coronavirus, quindi dobbiamo ripensare radicalmente il nostro modello di sviluppo: penso che ce la faremo solo se gli innovatori avranno la meglio nel conflitto contro i conservatori.

Quindi c’è bisogno di voi. Di intellettuali e non solo di virologi…

La gran parte degli intellettuali non stanno esprimendo nessuna tensione rivoluzionaria in queste settimane, sembrano addormentati. Pochi sembrano volersi spendere, forse perché molti sono garantiti, lavorando in università o godendo di una buona condizione economica. Sono molto rammaricato perché le figure che potrebbero accalorare gli animi umani lo stanno facendo molto poco, preferiscono restare in silenzio rinnegando la propria funzione nella società: manca come l’aria una figura come quella di Pier Paolo Pasolini, manca un progetto politico di sinistra, manca una visione radicalmente ambientalista che pensi non solo a come trarre profitto dal sole e dal vento, ma anche a difendere la vita delle formiche, delle capre, delle pecore. Sembra che molti stiano aspettando che riaprano bar e parrucchieri, mentre noi intellettuali dovremmo spenderci per costruire un mondo diverso. La posta in gioco non è solo la vita degli umani, ma di tutto il pianeta. Non c’è arte che può ignorare la questione ecologica. Dopo il virus torneremo a parlare dei guasti del clima e poi arriverà un altro virus. Oltre al distanziamento sociale, bisogna distanziarsi dall'egoismo e dall'indifferenza. Stare lontani ora ha senso solo se abbiamo un progetto di costruire una grande comunità planetaria, fatta di una nuova alleanza degli umani con gli animali e le piante.

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