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Cinquant’anni fa: «Il più grande affare del secolo»

Il 4 maggio 1966 si realizza un’intesa che assume un forte impatto simbolico nelle dinamiche della guerra fredda: la Fiat stipula un accordo con il regime sovietico per avviare la produzione di auto e sviluppare il processo di motorizzazione in Urss.
A cura di Marcello Ravveduto
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In quella stessa giornata Papa Paolo VI benedice una nuova leva di sacerdoti accogliendoli con queste parole: «Provate, Figli carissimi, a pensare la Chiesa come la dimora di Dio; vi troverete la risposta a tante incomprensioni che ne deformano il concetto; vi troverete l’invito ad entrare più addentro in questa casa benedetta, a conoscerla meglio, a dimorarvi con gaudio e con dignità; vi troverete la scoperta d’una grande fortuna, quella appunto di avere una casa; una casa dove l’amore ai fratelli è principio di coabitazione, e dove l’amore di Dio a noi, di noi a Dio ha la sua più felice e più promettente celebrazione».

Alla Camera intanto si discute una proposta di legge sul Trattamento economico dei dipendenti dei Corpi di Polizia del cessato Governo militare alleato di Trieste, con l’obiettivo di assorbirli nei servizi di pubblica sicurezza nazionale. Pare una giornata come le altre, una giornata in cui si prova a godere l’arrivo della primavera.

Eppure in quel 4 maggio 1966, si realizza un’intesa che assume un forte impatto simbolico nelle dinamiche della guerra fredda: la Fiat stipula un accordo con l’Unione Sovietica per avviare la produzione di auto da destinare ai compagni della nomenclatura.

Insomma, attraverso l’azienda torinese, l’Italia stipula un accordo economico con l’Urss. Già solo questo dovrebbe far riflettere: il governo si affida all’azienda torinese per tutelare gli interessi nazionali in quella parte del mondo che è avversa al patto Atlantico.

La Fiat, quindi, diventa il fulcro intorno a cui si sviluppa una piena identificazione tra economia industriale, politica estera e scambio commerciale. Lo stabilimento, del resto, sarà costruito, ancor più simbolicamente, a Togliattigrad, la città sorta sul Volga e intitolata al “Migliore”, ovvero al capo dei comunisti italiani e a lungo numero due del Comintern.

I fatti. Il 4 maggio del 1966, a Torino, Alexandr Mikhailovich Tarasov, ministro sovietico per l’industria automobilistica, firma l’accordo Fiat-Urss per la realizzazione di AutoVAZ (Volzhsky Avtomobilny Zavod), uno stabilimento che prevede la produzione di 2000 automobili al giorno sul modello della 124. La prima vettura vedrà la luce il 20 aprile 1970. Il protagonista dell’accordo è Vittorio Valletta, pronto a far tacere l’anticomunismo ideologico dinnanzi alla logica degli affari. Il presidente della Fiat, infatti, ha intessuto pazientemente una fitta trama di relazioni per evitare che i sovietici potessero tirarsi indietro e gli americano attuare ritorsioni.

Con la sua navigata abilità politica, oltre che manageriale, il professore riesce a ottenere, prima da Kruscev e poi da Breznev, carta bianca in tema di progettazione, tecnologie e organizzazione della rete di distribuzione e di assistenza, battendo sul tempo altre case europee (Volkswagen e Renault più di tutte) che vogliono sfruttare un mercato così grande e inesplorato.

Perché Valletta riesce dove gli altri falliscono? Intanto, va detto che la Fiat ha già messo piede in Jugoslavia e Polonia influenzando la crescista del settore automobilistico nell’est europeo. Sbarcare in Urss, però, comporta un’attenta strategia di politica economica, connessa da una parte alle relazioni internazionali bipolari e dall’altra alle condizioni del mercato nazionale sovietico: nel 1965, in URSS vi è ancora un’automobile ogni 238 abitanti, un tasso di motorizzazione basso se confrontato non solo con quello americano di un’automobile ogni 2,7 abitanti, ma anche con i più discreti standard dell’Europa occidentale. La creazione di un Ministero della produzione automobilistica nel 1965 è il primo segno della decisione della nuova leadership di rilanciare il settore, decisione comunque determinata più dalla necessità di risolvere gli squilibri industriali che non dall’interesse del partito nella motorizzazione.

Ma cosa si nasconde dietro quello che è stato definito (da Averell Harriman, ex ambasciatore americano a Mosca) «Il più grande affare del secolo»? L’accordo del Volga induce a riflettere sulla relazione tra gli interessi strategici e di profitto dell’impresa e le finalità politiche e ideali che durante la guerra fredda permeano e orientano l’attività economica, in particolare i rapporti est-ovest.

Una prospettiva che scavalca le relazioni tra Italia e URSS e che si pone l’obiettivo di liberalizzare, sotto l’apparenza della permanente divisione in blocchi, gli scambi di tecnologia e sapere tra il mondo capitalista e quello socialista. L’intensità dei contatti tra la Fiat e Washington, leggendo le carte degli archivi americani, suggeriscono che la costruzione del VAZ possa aver contribuito a sdoganare dal punto di vista politico, agli occhi dell’opinione pubblica americana, i sempre più intensi e reciprocamente necessari trasferimenti di tecnologie e know-how verso l’URSS.

Ciò significa che la Fiat, ancor più del governo italiano, è individuata dagli americani come un partner affidabile all’interno di una strategia di penetrazione economica che vuole aggirare gli steccati ideologici attraverso l’effettiva capacità delle imprese multinazionali di condizionare, influenzando e uniformando la produzione industriale, gli equilibri politici della Guerra Fredda, solo apparentemente congelati.

Il progetto tecnico, consegnato alle autorità sovietiche nel gennaio del 1966, prevede infatti un grado particolarmente alto di meccanizzazione, garantito anche dall’acquisto di macchine statunitensi. D’altra parte la possibilità di esportare macchinario verso l’URSS rappresenta un’interessante opportunità anche per l’industria americana e se l’accordo crea qualche preoccupazione nel mondo politico americano, suscita, al contrario, più di una speranza tra gli industriali. Insomma la Fiat apre un corridoio, con un ampio mandato esploratore, al successivo ingresso delle multinazionali americane in un mercato considerato inaccessibile.

«Il più grande affare del secolo», in realtà, è il canto del cigno della dirigenza Valletta, di quella pragmatica astuzia industriale che non vuole e non può arretrare di fronte alla tare ideologiche, anzi le sfrutta (da un lato le aspettative degli industriali americani, dall’altro le relazioni con il Partito comunista italiano) per raggiungere la meta prefissata. A cinquant’anni di distanza ci accorgiamo come il sistemato trasferimento tecnologico abbia fatto pesare la bilancia del conflitto silente dalla parte del capitalismo industriale, segnando il destino di uno dei due contendenti.

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