Chi è Eddie Brock, fenomeno Tiktok con Non è mica te: “Non mollo ancora il mio lavoro. Amici? Scartato tre volte”

A discapito di ciò che appare sui social, soprattutto su TikTok, Eddie Brock (pseudonimo legato all'universo Spiderman), nome d'arte di Edoardo Iaschi, arriva da lontano. Sono ormai 7 gli anni di musica, con esperienze come il Coca-Cola Future Legend con Annalisa, un Ep, un disco come Amarsi è una rivoluzione, ma soprattutto il successo con Non è mica te. Oltre 20mila video con il brano in sottofondo su TikTok, 5 milioni di ascolti su Spotify e una presenza fissa in Viral Top 50. Questo però non ha allontanato Edoardo dalla sua realtà, dalla sua quotidianità, dal suo "lavoro dalle 8 alle 16" e da suo cugino, che lo accompagna in entrambe le sue carriere. Poi i provini per Amici e quel sogno di ritornarci, magari da ospite perché "entra nelle case degli italiani, è come Sanremo". Qui l'intervista a Eddie Brock.
Come stai vivendo questo periodo di enorme visibilità?
A livello musicale devo ancora metabolizzare, è tanto tempo – abbiamo iniziato ormai sette anni fa – che aspettiamo questo momento. Sono un po’ spaventato, ma anche voglioso di fare questo lavoro.
Qual è il cambiamento più grande che è avvenuto dopo Non è mica lei?
Credo che la preoccupazione maggiore è come cambierà la mia quotidianità. Di solito lavoro dalle 8 di mattina alle 20, ora dovrò lavorare dalle 8 alle 16 perché dalle 16 alle 20 devo fare musica.
Come l’hanno presa le persone attorno a te?
Non sono contentissimi, è difficile perché devi comunicare un cambiamento e temi un po’ di deluderle. Ci sono delle aspettative quando si raggiunge un certo livello per quanto riguarda i numeri. Io sono una persona ambiziosa e quindi la paura più grande è deludere le aspettative che mi creo.
Hai comunque deciso di mantenere il tuo lavoro?
Mi sono tenuto il lavoro che faccio perché voglio continuare a fare le stesse cose di prima: se ci sono riuscito fino a ora, non vedo perché cambiare adesso. Poi se mi chiedessero di andare a fare il tour negli stadi, va bene, ma per ora non è così
Che lavoro fai?
Gestisco case vacanze con mio cugino, che lavora con me anche nella musica.
Quando hai notato per la prima volta questa attenzione e come hai reagito?
Quattro anni fa andò virale una canzone, anche se non con questa portata. Pensavamo di aver già fatto un brano di successo con Tarocchi: che aveva collezionato un milione di streaming. Una cifra enorme per noi che eravamo indipendenti e senza sponsor. Faceva 5000 ascolti al giorno, sembrava qualcosa di insormontabile.
E invece?
E invece abbiamo visto che oggi stiamo facendo numeri da big, anche se in modo casuale. Io ci ho messo molto impegno, facendo 100 video al giorno. Sono testardo, ho pensato che la canzone mi piaceva e aveva le carte per arrivare. Non avevamo molti soldi, ma volevamo farcela da soli. Abbiamo pubblicato tantissimi video, senza pagare nessuno.
Ci sono state anche le polemiche di chi ti accusava di “spammare”. Come l’hai vissuta?
Io rispondo sempre educatamente e secondo me il dibattito è giusto. Le persone sono abituate a vedere cantanti che non si sponsorizzano da soli. Ora va molto il rap, che è diventato pop; quindi, chi è famoso ha già i suoi tiktoker che fanno i video. Quando vedono la stessa faccia 100 volte pensano che io non stia bene, ma se avessi avuto i soldi, avrei sicuramente pagato 20.000€ qualcuno per fare dei video al mio posto (ride ndr). Quest'applicazione però mi ha dato tanta soddisfazione, perché è tutta farina del mio sacco. È faticoso, non puoi farlo sempre, per ogni brano, ma è stato bello perché testimonia quanto credi nella musica. Alcuni utenti dicevano “hai fatto solo questa canzone”, ma non vedono il percorso precedente. Io ora promuovo così questa, poi vediamo la prossima.
Ti è arrivato qualche messaggio bello dal pubblico o da colleghi dopo il successo?
Mi hanno scritto in tanti, anche del mondo musicale, ma preferisco prendere una birra con loro perché parlare di contenuti e contratti non è il mio forte. C’è un video che mi ha emozionato: una mamma con la figlia che canta la canzone in macchina. Mi ha colpito che la canzone sia riuscita ad arrivare a generazioni così diverse.
Hai detto che fai musica da sette anni, ma credo tu abbia iniziato prima. Com’è cominciato tutto?
Praticamente ho iniziato scrivendo poesie, ero fissato con il rap. Non riuscivo a scrivere senza base (produzioni ndr), quindi le mettevo su un dischetto e le ascoltavo in macchina: Eminem, brani come Till I Collapse e simili. Cercavo di capire se le mie parole potessero stare su una base. Poi ho iniziato a fare battaglie di freestyle in piazza, mai ufficiali perché ero piccolo e timido. Ero bravino a rigirare le rime. Un giorno sono andato a registrare una canzone e il tizio mi disse: "Non puoi fare il cantante, hai una voce bruttissima". Ci rimasi malissimo. E l’ho pure pagato! Quindi ho smesso per un po’.
Ti ha un po’ frenato?
Ho smesso di andare a registrare per un anno. Poi ho ricominciato, ma a 17 anni ho capito che comunque il rap non era un vestito che potevo portare così bene. Però lo ascolto tuttora.
Forse perché non parlava più neanche a te.
Per quello: i soldi e tutte le altre cose. Erano temi un po’ distaccati da quello che ero io, non tanto perché non fosse figo sentirlo ma perché non potevo dirlo io. Gli incastri, le rime e i flow hanno cominciato a cambiare e io non riuscivo più ad adattarmi. Quindi ho detto: io comunque voglio parlare di una storia d'amore, volevo fare il cantastorie.
Come vedevi il cantautorato?
L’ho sempre ascoltato, per me erano Lucio Dalla, Pino Daniele e Lucio Battisti, quindi non pensavo di poter fare quello. Poi ho ascoltato Fabrizio Moro: secondo me era un anello di congiunzione tra quello che pensavo io e quello che ascoltavo. Mi sono detto che potevo dire le stesse cose ma più cantate, senza stravolgere quello che sono io.
C’è un progetto che ti aveva colpito?
Sì, un disco che era nella mia scuola: Ognuno ha quel che si merita. L’ho ascoltato lì, mi hanno permesso di portarlo a casa perché ormai si stava impolverando lì dentro. Mi ha stupito e ho capito che dovevo provarci.
Il passo successivo?
Ho cominciato a registrare le prime canzoni con mio cugino in casa. A un certo punto abbiamo detto: "Guarda, è il momento di farci qualcosa. Male che vada, se resta tutto uguale, almeno avremo provato".
Hai partecipato al Coca-Cola Future Legend, vero?
Un giorno, senza dirmelo, mio cugino mandò la richiesta per il Coca-Cola Future Legend come se fossi un concorrente. Mi iscrisse nella categoria Soul. Pensavo non ci avrebbero mai preso. Ci siamo ritrovati buttati in mezzo a gente che cantava e suonava e noi sapevamo solo scrivere testi. Ma quella cosa ci ha fatto capire come si lavora.
Chi c’era come coach della tua squadra?
Annalisa, che è stata di una gentilezza incredibile. Avevo 19 anni, lei 10 in più, già affermata. Non era tenuta a esserlo, ma lo è stata: mi ha trattato come un amico, mi ha insegnato come funziona quel mondo. Io ho calmato la mia presunzione — anche se più che presunzione era ignoranza — capendo che non sapevo nulla.
Amarsi è una rivoluzione parla anche di un amore nei propri confronti?
Amarsi è una rivoluzione nasce proprio come un concetto riflessivo, di amore verso sé stessi. Perché solo amando sé stessi puoi anche generare amore. Ma la vera idea dietro era "amare la quotidianità", quella che si è persa. Tutto va veloce, tutti cercano qualcosa di più grande, ma secondo me la felicità sta nelle piccole cose: prendere il caffè sempre allo stesso bar alle undici, con gli amici o con la ragazza. È una cosa che non va data per scontata, perché c’è chi non può farlo.
Hai mai provato la strada dei talent?
Mi hanno scartato da Amici per tre anni di fila.
Ti sei mai chiesto il motivo?
Perché devi essere portato per quelle situazioni. Tutti pensano che sia la via facile, ma non lo è per niente.
E perché c’è qualcuno che non la pensa così, secondo te?
Perché non riconoscono il lavoro con le telecamere, la quotidianità che ti restituisce questo tipo di avventura. Pensa già a tutti i mesi nella casetta, poi ammetto che all’epoca non ero un performer da televisione: sono uno che voleva e vuole stare con la gente, toccarla, parlare.
Ti piacerebbe ritornarci, magari come ospite?
Come ospite sarebbe una soddisfazione enorme. Non solo per me, ma anche per mia sorella e le persone a cui voglio bene. Entra nelle case degli italiani, è come Sanremo.
(Questa intervista è stata editata per motivi di lunghezza e chiarezza)