
Angelina Mango aveva altro a cui pensare (la vita, la musica, la felicità, gli studi) mentre scriveva e incideva caramé, il suo nuovo album pubblicato a sorpresa giovedì 16 ottobre. Eppure, questo lavoro inatteso ci ha messo davanti a un tema dal quale non è più possibile scappare: la sincerità del pop. Un argomento che fan e critici toccano volentieri solo per rinfacciarne la mancanza a questo o quell’artista, usandolo come una clava; un argomento che per qualcuno è completamente fittizio, una creatura dell’immaginazione poptimista; ma che va esaminato con serietà, se vogliamo comprendere il nuovo disco e cosa significa per il percorso dell’artista.
Quando, fino a un paio di anni fa circa, quasi nessuna popstar si negava il piacere di un documentario autobiografico, c’era un’espressione che girava nelle interviste, nei comunicati, nelle inserzioni pubblicitarie: "senza filtri". Questioni di marketing: non si poteva certo promettere al pubblico (non) pagante delle piattaforme streaming (Prime Video, solitamente) un’esperienza identica a quella che avrebbero potuto fare in modo (interamente) gratuito sui social network, dove la presenza degli artisti è ormai obbligatoria e costante. E allora, quel prodotto attentamente curato e supervisionato dagli artisti stessi, e modellato secondo canoni filmici assodati, veniva proposto come “uno sguardo senza filtri”, crudo come il latte che andrebbe poi pastorizzato a casa. Ma con la musica non si può spacciare la sincerità soltanto a parole. Per un disco, un prodotto infinitamente più familiare al pubblico rispetto al docu-film, non ci si può accontentare dei proclami. Deve esserci qualcosa in più. O, semmai, in meno. E bisogna assicurarsi che a furia di togliere per mostrarsi sinceri rimanga qualcosa, alla fine. Precisamente la sfida che l’album caramé di Angelina Mango pone all’ascoltatore. Che alla fine dei suoi 46 minuti di musica dovrebbe saper rispondere alla domanda: chi è veramente Angelina Mango?
E l’artista una risposta ce la dà subito, nel giro di pochi minuti dall’inizio dell’ascolto: "Non sono una star, nemmeno per sogno. Sono matricola a vita da 100 e lode", canta nel ritornello di 7up. Entrando di soppiatto sulla scia dell’intro, che porta il titolo del disco e sembra volerne rappresentare l’identità sonora caotica e sperimentale, la canzone che arriva subito dopo ha un obiettivo chiarissimo: presentarci Angelina come non si è mai presentata prima. E com’è questa ragazza? Una persona che si sente sempre sotto esame, che vorrebbe sparire dallo sguardo, se possibile farsi piccola e svanire.
E certo, questo farsi piccola, sparire dentro una maglietta oversize, risucchiarsi come "un pacco sottovuoto", potrebbe essere solo una confessione senza significati ulteriori: la reazione alla fama, la ricerca della privacy, l’allontanamento dalla scena pubblica – e non evidentemente dalla musica, se dopo poco più di un anno da poké melodrama sono arrivate 16 nuove tracce. Ma, se posiamo la lente confessionale e proviamo a non leggere tutto semplicemente come un aggiornamento sul proprio stato di salute mentale ed emotiva, troveremo qualcosa di universale. In quelle immagini e in quelle che seguono, per esempio, vediamo l’ossessione per l’aspetto altrui (specialmente l’aspetto delle donne) che viene quotidianamente promossa dal voyeurismo e dal narcisismo dei social network; l’aspirazione alla normalità offline comune a generazioni cresciute dentro internet; perfino problemi di dismorfismo corporeo, come quelli intorno a cui ruota una parte importante dell’album Virgin di Lorde.

Insomma, la sincerità come mezzo e non come fine. Ed è qui che interviene anche il versante più propriamente musicale della faccenda. Nella scrittura e produzione di caramé, interamente curata da Angelina stessa con l’aiuto di Giovanni Pallotti e qualche sporadico collaboratore, c’è una cura per i particolari che spiccano dal resto del panorama: possono essere oggetti triviali citati nelle liriche, come "le sedie dell’Algida rosse" (che ricordano le sedie di Bad Bunny), o possono essere arrangiamenti che provano a simulare la spontaneità lanciando hook strumentali che non si dispongono in modo perfettamente simmetrico, come quella specie di arpeggio che ricorda Enya nel mezzo del ritornello che viene spezzettato e proposto contro-tempo (o forse addirittura fuori tempo) nel reprise finale dell’inciso. Come un programma che fa glitch e mostra la fragilità delle impostazioni di sistema – lo star system, s’intende – così, spezzare le regolarità e lasciare che non solo i pieni ma anche i vuoti dicano qualcosa è un modo efficace per trasmettere quella naturalezza che questo progetto vuole esplicitamente evocare.
Ma la spontaneità e la sincerità sono mezzi e non fini, e inoltre fare i conti con la fama non è proprio il tema più universale. E così, già la traccia successiva spariglia le carte con uno stomp-clap un po’ alla Ed Sheeran e immagini immediatamente riconoscibili: le scarpe slacciate che danno il titolo alla traccia; uno zaino aperto; il wi-fi che salta; le gomme bucate. Non è nell’immagine “sinceramente” fine a sé stessa che si deve trovare il senso, ma nel loro comune denominatore: sono tutti incidenti di percorso, quelli che Angelina elenca con l’aiuto del fratello Filippo, coautore del brano. E del resto, se la cornice della canzone con dialoghi e voci fuori campo vogliono dare un aspetto quasi documentaristico al tutto, il resto della produzione estremamente raffinata sembra piuttosto creare un contrasto. A dispetto di ogni comprensibile e naturale difetto, Angelina è una persona che dà il massimo e brilla proprio quando può dimostrare la sua forza e la sua debolezza insieme: potremmo interpretare così il segmento a cappella (“che mi svegli la mattina con la forza dentro che c’avevo prima”) che funge insieme da pezzo di bravura ma anche segnale di un trattamento della voce che vuole sottolineare le increspature e gli scricchiolii del vocal fry.
Nessuno può stabilire il grado di sincerità di un disco: poiché siamo privi di poteri parapsicologici, e di mestiere non facciamo i preti confessori, critici e giornalisti musicali devono partire dall’assunto che ogni progetto discografico sul quale un artista apponga il proprio nome sia almeno in qualche misura un’espressione genuina di sé; che l’autenticità sia un prerequisito, magari a intensità variabile, e non un’aspirazione. Ma è facile confondersi dentro un’epoca che culturalmente esalta sia la perfezione assoluta sia la veracità “senza filtri”. Essere vocalist di grande talento può aiutare a tenere insieme la contraddizione, come nel caso di pacco fragile. "Fragile" è una parola abusata nel pop contemporaneo: vasi rotti (magari riparati con il kintsugi), vetri rotti, specchi rotti; e poi cicatrici, graffi, croste varie ed eventuali. Angelina prova a non cascare nei luoghi comuni usando un’immagine comunissima, il "pacco", e gioca nuovamente una partita tra vocalità pulita e sporca, con tutti i trucchi audio possibili e portando pienamente nel mondo di caramé una canzone che per feeling R&B latino e acuti titanici non avrebbe sfigurato nella discografia di Tiziano Ferro.
Non è la prima e non sarà l’ultima volta che sentiremo un audio leggermente disturbato, come quello all’inizio di pacco fragile e poi di la vita va presa a morsi: forse tratto da un demo o magari inciso volutamente con un microfono omnidirezionale, questo tipo di suono sporco e distante ci vuole trasmettere un che di "onesto", perché possiamo immaginare lo spazio fisico in cui l’artista ha cantato. L’espediente dell’intro o outro “infedeli” non è nuovo e il senso di questo tuffo lo-fi dentro le cristalline acque del pop è evidente: mostrare uno squarcio di “verità”, come una pagina di diario strappata all’oblio e posta all’inizio di una curatissima sceneggiatura. Le irruzioni dei suoni imprecisi e ambientali, in verità, sta andando di gran moda: su ispirazione dell’artista americano Dijon e del suo album Absolutely anche Justin Bieber ha pubblicato nei mesi scorsi un disco “sporco” e domestico come SWAG. Perché questo bisogno di autenticità ha radici che affondano in una crisi di fiducia secolare, e che un decennio di disinformazione accelerato dall’IA sta solo portando alla saturazione definitiva.
Angelina Mango attinge a questo spirito anche quando, in ci siamo persi la fine, sembra portare sulle nostre sponde un certo spirito alla Taylor Swift, quella degli album belli non come l’ultimo. Ma va dritto al cuore del tema in ioeio, canzone in cui viene messo alla prova proprio il nostro concetto di “sincerità” in musica. Il tema: una crisi esistenziale descritta come un dialogo tra multiple personalità, rappresentate sia dalla voce ospite di Madame (eppure i featuring siamo cinicamente spinti a considerarli solo strategici, mai poetici) sia dalle diverse modalità di canto sfoggiate da Angelina, che esplora più registri e timbri in una canzone la cui struttura stessa tende al non ricorsivo, con sezioni che si succedono e quasi mai si ripetono, compreso un cambio di tempo e ritmo radicale (tra “per oggi è abbastanza” e “ma quante vite ci perdiamo”). Comunicare in questo modo il messaggio “vorrei essere chiunque altro” diventa molto più efficace, perché la voce e la musica cambiano effettivamente pelle, e così la confessione onesta di uno smarrimento ci dice qualcosa in più, anche su di noi: che non esiste una sola e immutabile identità autentica di una persona, figuriamoci di un’artista (ne ha parlato di recente in un bel TED Talk anche Francesca Michielin). La sincerità per demolire la sincerità, in un certo senso.
E del resto, a dispetto di tutto, caramé è un disco stilisticamente variegato quasi come poké melodrama: non esiste una verità ultima sulla persona Angelina Mango, se non che è in cerca di questa verità. Lo possiamo vedere anche nei supporti visivi del disco. I videoclip creati “da idee di Angelina Mango” aspirano tanto più alla spontaneità quanto più sembrano artefatti, fasulli, astratti, perché composti con estetiche complesse e tecniche per nulla naturalistiche: la stop motion di velo sugli occhi, ad esempio, è tutto tranne che una rappresentazione fedele della realtà, e semmai assomiglia alla sequenza di una libreria fotografica di un telefono particolarmente disordinato.
La spontaneità attraverso l’estrema stilizzazione, attraverso una letterale cornice tecnologica, attraverso il sottotitolo fuori sincrono, attraverso il disegno magari un po’ stortignaccolo e naif. La spontaneità di un collage, che è poi la copertina di questo disco, ultimo in una lunga tradizione di album che cercano di comunicare visivamente l’emancipazione dell’artista e la sua resistenza alle pressioni sulla sua identità, poi declinate in scelte musicali ondivaghe, da Revolver dei Beatles a Javelin di Sufjan Stevens, se mi si permettono paragoni esagerati. I dischi-collage parlano di un’urgenza e di crisi, e nonostante siano prodotti industriali con i loro trucchi e le loro collaborazioni (qui Calcutta firma aiaiai e Dardust produce, come in qualunque album pop in circolazione) sanno farsi carico delle inevitabili imperfezioni non quando – come vorrebbero certe comunicazioni di marketing – provano a illudere il pubblico che esistano prodotti al 100% “naturali”, ma quando mostrano i fili delle marionette, il buco nel cielo di carta.
Mostrare la fatica, il lavoro, far vedere come si è quando si sbaglia, ed evitare semmai quella falsa naturalezza che si insegna agli interpreti nelle scuole di musica: sorridi mentre canti! No, caramé si fa carico del nostro bisogno estremo di autenticità nel pop evitando (quando possibile) le prove da fenomeno, la coolness senza sforzo. Angelina Mango vuole suonare cringe, piuttosto. Per quanto una mentalità da sgobbona (la matricola da 100 e lode) le possa consentire. In velo sugli occhi c’è la consapevolezza matura di essere alla “fine del mio primo atto” ma anche una lista della spesa di desideri quasi ingenui.
L’unicità di quest’artista non è la spontaneità pura, ma lo sforzo di mettere da parte la perfezione: nel brano citato la voce è pulita, non si rompe; ma poi tutto intorno cambia all’istante, con la rapidità di un pensiero intrusivo, e la voce deve seguire questo stravolgimento. Quando a 0:47 sentiamo "ora voglio solo vivere", un piano segna gli accordi e un nuovo ritmo, e un basso mai sentito prima irrompe da sotto; la voce viene spezzata in post-produzione ed ecco che l’andatura iniziale è completamente saltata e, senza neanche accorgercene, siamo già nel mezzo della seconda strofa con un groove totalmente diverso. E se pensavi che fosse l’unico stravolgimento, aspetta che arrivi la coda ("ora voglio alzarmi alle quattro”" 1:58) con un tempo e una metrica totalmente nuovi che sparecchiano i concetti precedenti.
Abbiamo sentito una forma pura e grezza di espressione musicale sincera? Ma neanche per sogno. Questa canzone (e caramé in generale) è la sapiente rappresentazione di una personalità che cresce e cambia, anche da un giorno all’altro, che lotta con certe sue tendenze e prova ad accoglierne altre. Ed è qui che troviamo il messaggio dell’album. La spontaneità? Non esattamente. Una celebrazione di cosa significa essere Angelina Mango? Se proprio vuoi – ma allora come ti spieghi l’ultima traccia affidata a una collega e amica, Henna, realizzazione del sogno iniziale di mettersi in disparte? Piuttosto, caramé prova e spesso riesce a ricordarci com’è avvicinarsi all’età adulta pensando di non aver ancora vissuto del tutto la propria giovinezza, è una crisi di mezz’età prima dei 30 anni, è un burnout non diagnosticato. Non è un disco da star: è un disco da universitari. E di questi tempi c’è molto bisogno dei secondi e un po’ meno delle prime, quindi ben venga una rappresentazione della loro vita caotica, felice e leggermente disperata.
