A Gaza distrutti musei e siti archeologici: “Bombardati per cancellare la memoria storica palestinese”

È convinzione comune pensare che la storia di Gaza coincida con quella degli ultimi cento anni, al centro del feroce conflitto israelo-palestinese. Invece, nell’oasi un tempo prospera, stretta tra il mare e il deserto sulle coste orientali del Mediterraneo, crocevia di rotte commerciali provenienti dall’Asia e dall’Africa, molte culture hanno lasciato il segno a partire da tredici secoli prima di Cristo. Limitativo chiamare “striscia” una terra abitata da Egizi, Filistei, Assiri, Romani, Bizantini, Ottomani, fino agli Inglesi, e che è testimonianza di una cultura umana condivisa.
Eppure, oggi, di questa memoria storico-archeologica c’è il rischio che non rimanga più nulla. L’ultimo rapporto stilato dall’Unesco, difficile da aggiornare a causa delle censure e degli impedimenti della guerra, ha verificato via satellite danni ingenti a decine di siti culturali: dagli edifici religiosi ai monumenti, fino ai musei e ai siti archeologici. Una distruzione che significa violenza irreversibile non contro un solo popolo, ma contro l’umanità intera. E non si tratta soltanto delle conseguenze nefaste dei bombardamenti aerei da parte dell’esercito israeliano. Esiste una minaccia ideologica che parte, ormai non più tanto sottilmente, da impostazioni scientifiche controverse.
L’archeologia viene, così, ad assumere un significato politico perché produce narrazione e perché i suoi dati, essendo soggetti ad interpretazione, corrono il pericolo della manipolazione se scorrettamente usati. Il reperto, la cui comprensione è travisata, diventa arma per giustificare idee preconcette, per costruire egemonie, per raggiungere scopi programmati. Al di là della lotta per il possesso dei territori, si aprono scenari più nascosti, subdoli, ma non meno nocivi: il mettere da parte, ignorare o cancellare il sapere e la cultura dell’altro, del diverso, arriva a determinare una sorta di conquista intellettuale.
La ricerca archeologica, se intesa a dimostrare la veridicità del racconto biblico in quella Terra promessa che è anche Palestina, prende la forma di un percorso ad ostacoli tra dialettica livorosa e insidie propagandistiche. A parlarne è Francesco Maria Benedettucci, 58 anni, che ha diretto, dal 1999 al 2011, la missione archeologica a Tell al-Mashhad, in Giordania. Il sito è conosciuto anche con il nome di Khirbet ‘Ayun Musa, “Le rovine della sorgente di Mosè”, e si trova ai piedi del Monte Nebo, sulla cui sommità, secondo il racconto del capitolo finale del Deuteronomio, il profeta sarebbe morto contemplando la Terra promessa che Dio aveva destinato al suo popolo.
Come archeologo e direttore di una missione in Giordania Lei conosce e ha frequentato la terra oggi martoriata dalla guerra. È possibile conteggiare i danni ai beni archeologici in questi ultimi due anni a Gaza?
Al momento è molto difficile fare un inventario preciso, perché non possiamo verificare direttamente, ma è accertato che il numero dei monumenti colpiti durante gli attacchi aerei è alto. Un paio di settimane fa ha destato sconcerto l’ordine di sgombero dato dall’esercito israeliano, con poche ore di preavviso, ai frati domenicani dell’Ebaf (l’École Biblique et Archéologique Française) di Gerusalemme.
Cosa è successo?
Il loro deposito archeologico a Gaza, ricavato al piano terra di una torre di tredici piani nel quartiere di Rimal, custodiva manufatti e documenti raccolti in oltre vent’anni di scavi e ricerche nei principali siti della Striscia, una testimonianza storica unica di questo territorio che va dal porto greco di Anthedon ai mosaici bizantini, fino all’epoca ottomana. Le forze armate israeliane avevano la convinzione che l’edificio, data la sua altezza, sarebbe stato utilizzato da cecchini di Hamas, pertanto andava raso al suolo. Non ci sono ancora conferme certe su quanto sia stato possibile salvare in extremis, senza imballaggi adatti e con l’alto rischio per l’incolumità dei volontari coinvolti nel trasferimento.
Abbiamo dati su quanto si è salvato?
Pare che il 70% dei reperti del magazzino sia stato trasportato altrove, mentre il 30%, costituito da ceramiche e materiali lapidei, ora giace sepolto sotto le macerie. Il tutto, nonostante il fatto che lo stato di Israele già nel 1958 abbia ratificato l’adesione alla Convenzione dell’Aia (1954), sulla protezione dei beni culturali in caso di conflitto armato.
Si ha contezza, invece, del patrimonio archeologico che è andato perso a Gaza all’interno dei musei?
Il bollettino di guerra ha registrato i bombardamenti accaniti su almeno due musei di Gaza, quello di Qasr al-Basha, “Il Palazzo del Pascià”, di epoca ottomana dove Napoleone soggiornò durante la campagna d’Egitto, e quello di Mat’haf al-Funduq. Allo stato attuale, con un’offensiva militare in corso, non ci è dato sapere in quali condizioni siano sopravvissuti i materiali conservati al loro interno e che raccontano una storia millenaria.
Quale storia?
Cominciamo col dire che il territorio di Gaza è strategico punto di transito tra l’Egitto e tutto il Vicino Oriente. Già dal terzo millennio a.C. è stato tappa della cosiddetta Via Maris che, costeggiando il Mediterraneo e risalendo lungo la Fenicia, univa il delta del Nilo alla Siria, per poi ripiegare verso l’interno, in direzione Mesopotamia. Ne va da sé quale importante crocevia di popoli e merci fosse l’antica Gaza.

Quanti sono i siti archeologici a Gaza?
Se parliamo di Gaza city, la città moderna ha coperto le fasi architettoniche più antiche, ma in anni recenti sono stati portati alla luce notevoli monumenti, come la chiesa di Jabalia, con importanti mosaici pavimentali il cui restauro era terminato nel 2022. Inoltre, la chiesa greco-ortodossa di san Porfirio, eretta nel V secolo, è stata duramente colpita nell’ottobre 2023 da un attacco aereo che ha causato una ventina di vittime. Entrambe le chiese sono di epoca bizantina. Sul litorale, gravi danni sarebbero stati inferti al sito di Tell el-Ajjul, scavato negli anni Trenta da sir William Flinders-Petrie, che aveva portato alla luce i resti di un insediamento di grande rilievo dell’epoca del Bronzo, e a quello di Deir al-Balah, uno dei principali siti legati ai Filistei, nella cui necropoli furono scoperti importantissimi sarcofagi antropoidi in terracotta del XIII secolo a.C. Quest’ultimo sito è stato portato alla luce da archeologi israeliani dopo la Guerra dei sei giorni del 1967.
Dove si trovano oggi questi sarcofagi?
Sono esposti all’Israel Museum di Gerusalemme, nel quale erano ospitati altri esemplari della medesima tipologia provenienti dal mercato antiquario, ma in buona parte certamente rinvenuti in scavi clandestini a Deir el-Balah. Possiamo anche accettare l’idea che questi ultimi siano stati portati all’Israel Museum, in assenza di dati certi sulla loro provenienza. Tuttavia spostare a Gerusalemme i reperti rinvenuti in scavi regolari, ma eseguiti in un territorio occupato, assume un significato che va ben al di là di quello scientifico e conservativo. Significa sottrarre un bene a un altro popolo, rimuovendone la cultura.
Ci si appropria di una parte dell’antico e si rade al suolo con le bombe un’altra: è ‘memoricidio’ programmato? Per meglio dire, ci troviamo di fronte ad una deliberata cancellazione della memoria palestinese oppure la distruzione dei siti archeologici è un inevitabile effetto collaterale della guerra?
Per onestà intellettuale, c’è da dire che sicuramente l’obiettivo primario degli attacchi israeliani non è tanto colpire il patrimonio culturale, quanto eliminare Hamas, responsabile del tremendo eccidio del 7 ottobre, questo non va dimenticato. Tuttavia, sappiamo bene che esistono gruppi oltranzisti israeliani che non eliminerebbero solo i terroristi. Insomma, è una storia complessa e dolorosa iniziata con la fondazione dello Stato di Israele nel 1948, ma forse anche prima, in cui all’archeologia è stato spesso accollato il ruolo di espediente per giustificare la concessione divina della Terra promessa al popolo eletto, discendente da Abramo, cercandone le tracce.
E queste tracce sono state trovate?
Praticamente impossibile trovare tracce storiche dei grandi patriarchi come Abramo e Mosè, per dimostrare che la Bibbia aveva ragione (sorride, ndr). Possiamo certamente cercare di ricostruire il contesto storico e culturale in cui le vicende bibliche, in particolare quelle narrate nei libri del Pentateuco, sono ambientate. E, per determinati periodi, di sicuro per episodi successivi ai regni di Davide e Salomone (databili grosso modo al X secolo a.C.), esistono documenti che forniscono informazioni parallele a quelle fornite dai testi biblici. Pensiamo alla stele del re dei Moabiti, Mesha, oggi conservata al Louvre, che riporta la versione moabita di un evento, una guerra tra Israeliti e Moabiti, narrato nel secondo Libro dei Re. Ma sono casi rari.
Qual è la conclusione?
I testi biblici, come tutte le fonti storiche, possono in certi casi fornire elementi di interpretazione di alcuni problemi di carattere archeologico, storico o culturale. I problemi veri nascono quando si vuole per forza interpretare in chiave ideologica o religiosa (in questo caso biblica) i risultati degli scavi archeologici. Mi lasci spiegare meglio.
Prego.
Una premessa è d’obbligo: gli archeologi israeliani, dal punto di vista metodologico, sono molto preparati e chi lavora seriamente ottiene molto spesso risultati ragguardevoli. Il guaio nasce con l’interpretazione dei risultati stessi. Si pensi al sito di Hazor, città dell’età del Bronzo, a nord del lago di Tiberiade, in Galilea, e non lontano dai confini con Libano e Siria. Vi fu impegnato, a metà degli anni Cinquanta del secolo scorso, l’archeologo, generale e politico israeliano Yigael Yadin, cui dobbiamo anche gli scavi della fortezza di Masada. Da un punto di vista tecnico, Yadin guidò un rilevante lavoro, uno dei primi in linea con i moderni principi dello scavo stratigrafico che Kathleen Kenyon stava elaborando proprio in quegli anni a Gerico. Uno scavo ineccepibile, ma i cui risultati sono stati da molti interpretati in maniera discutibile.
In che senso?
Secondo Yadin la distruzione di Hazor, descritta come capitale di una importantissima città-stato cananea, sarebbe da attribuire alle tribù israelite che stavano conquistando la Terra promessa, come narrato nel Libro di Giosuè. Ma non esiste nessuna prova concreta, tangibile, che la distruzione della città fosse dovuta all’arrivo degli Israeliti nella terra di Canaan. In realtà questa distruzione, databile ai secoli finali del II millennio a.C., potrebbe essere dovuta ad altre popolazioni, locali (altri Cananei) o straniere (Egiziani, Hittiti o altri ancora).
Nell’Antico Testamento, Canaan è la regione in cui gli Ebrei si insediarono una volta terminato l’Esodo.
Sì, ma questa prospettiva biblica ha influenzato pesantemente molti archeologi, alimentando un vero corto circuito tra la realtà e la ricostruzione della storia.
Come qualcuno ha detto, si è scavato “con la Bibbia in una mano e la cazzuola nell’altra”. Ma in che modo si concretizza questa influenza?
Un piccolo esempio: ci sono molti studiosi per i quali la nomenclatura cronologica è mutuata dai racconti biblici. Quindi, l’età del Bronzo (grosso modo III-II millennio a.C.) viene chiamata epoca dei Patriarchi (epoca dei Giudici nella sua parte finale); l’età del Ferro (I metà del I millennio a.C.) diventa età israelitica (in cui possiamo distinguere l’epoca della Monarchia unita, sotto i regni di Davide e Salomone, e quella della Monarchia divisa, cioè i regni di Giuda e Israele nati dopo la morte di Salomone), e così via.
È così che il primato della presenza, cioè del c'eravamo prima noi, ha inciso nello scontro tra israeliani e palestinesi?
Sì. Ma la questione è assai più intricata di quanto sembri.
Perché?
Mentre molti israeliani rivendicano il possesso di questi territori legittimando, anche attraverso l’archeologia, la presunta esistenza di tracce del regno di Davide o di Salomone, altrettanti palestinesi si dichiarano i primi abitatori della regione in quanto discendenti dei Filistei. Infatti il toponimo Palestina deriva da Pelishtim, Terra dei Filistei, che precisamente si limita alla sola fascia costiera della regione compresa tra il Mediterraneo e il Giordano. In realtà, però, i Filistei erano una popolazione di origine indoeuropea, quindi non semitica, giunta, insieme ad altri gruppi dei cosiddetti Popoli del mare, sulle coste orientali del Mediterraneo verso il XIII secolo a.C. Furono i mercanti greci, dalla metà del I millennio a.C., ad estendere a tutta la regione la denominazione di Palestina, ampliando il concetto che in origine era limitato alla sola zona mediterranea. I primi veri abitanti della regione furono invece i Cananei, presenti qui ben prima di Filistei e Israeliti.
Ma allora chi ha ragione tra palestinesi e israeliani?
Mi pare evidente: nessuno.
L’archeologia, come disciplina scientifica, non potrebbe servire a dipanare i dubbi, a rendere il quadro più chiaro?
Se sei scorretto dal punto di vista metodologico, no.
Radere al suolo siti e musei archeologici può essere considerato un’altra faccia del colonialismo?
È un crimine contro la cultura umana. Che si unisce al metodo disonesto di manipolare, indirizzare a proprio piacimento il racconto degli eventi, per dimostrare l’autenticità storica dei testi religiosi.
Un metodo ancora efficace o è stato sdoganato?
Tra gli scienziati e gli addetti del settore il “modus operandi” è conosciuto. Invece la gente comune non è al corrente di queste dinamiche e prende posizione in base a quanto sa. Ne deriva un caos generale.

E ne deriva l’importanza di conoscere i fatti non solo antichi, ma anche quelli più recenti, contemporanei.
Assolutamente sì. Basti pensare che nel 2023 il governo israeliano annuncia uno stanziamento cospicuo di fondi per un progetto di valorizzazione destinato a trasformare in un polo turistico il villaggio palestinese di Sebastiya, nell’antica Samaria.
Di cosa si tratta?
Sebastiya è la città romana costruita da Erode il Grande nel 25 a.C., sulle rovine della capitale del regno di Israele dopo la divisione del regno di Davide e Salomone, intorno al IX-VIII secolo a.C. Divenuta sede vescovile in epoca bizantina, la tradizione cristiana vi colloca il sepolcro di san Giovanni Battista. Lo scorso maggio viene annunciata la ripresa degli scavi, fermi da decenni, per rimettere in luce i livelli stratigrafici israeliti. La questione sta nel fatto che il sito rientra nei territori assegnati ai palestinesi dagli accordi di Oslo. Di norma, in caso di occupazione militare di un territorio, le forze armate occupanti sono tenute a creare un ufficio speciale per la tutela dei beni culturali. Con questo atto recente, tale ufficio è stato esautorato per applicare direttamente la legge israeliana. In pratica, lo stato di Israele si è auto-assegnato la giurisdizione su tutela e valorizzazione di quel sito archeologico. Una imposizione inaccettabile.
Grosse stelle di David dipinte con la vernice nera spray sulle rovine di Sebastya e l’affermazione “scavando qui tocchiamo la Bibbia con la punta delle dita, contro la barbarie dell’Autorità nazionale palestinese salviamo i luoghi sacri” hanno destato sconcerto. È la militarizzazione, oltre che politicizzazione, dell’archeologia?
È solo un pretesto per giustificare l’annessione di nuove terre della Cisgiordania, collegando la narrazione biblica alla terra del gruppo sottomesso. Una manipolazione della storia a proprio piacimento.
Rivendicare, annettere, espellere. Possiamo chiamarla archeologia ideologica?
Accidenti se lo è.
Vale il paragone tra quanto accade a Gaza e l’accanimento dell’Isis sui beni archeologici? In entrambi i casi si tratta di ‘damnatio memoriae’ oppure il confronto è forzato perché i contesti sono differenti?
Non è affatto forzato. Per quanto i contesti siano differenti, il modo di ragionare è molto simile. Per l’integralista islamico, tutto ciò che è antecedente a Maometto e all’avvento dell’Islam, nel VII secolo, non ha alcun valore. Se poi la presenza di un bene artistico o archeologico viene a cozzare con l’interpretazione rigida e settaria che questi personaggi danno dei testi sacri, allora è la fine. Si pensi al caso delle due colossali statue di Buddha scolpite nelle pareti di roccia della valle di Bamiyan, in Afghanistan, e distrutte con l’esplosivo dai talebani nel 2001. In anni ancora più recenti, le distruzioni di Palmira, in Siria, o dei resti dei grandi palazzi assiri di Ninive, in Iraq, da parte del sedicente Stato islamico, riflettono la stessa mentalità di base: l’annullamento della cultura e della memoria altrui per imporre le proprie in modo violento.
La comunità archeologica nazionale ed internazionale è rimasta a guardare senza intervenire o ha denunciato le devastazioni in atto a Gaza sul patrimonio culturale?
Ad una decina di giorni fa risalgono sia la lettera aperta della Ong israeliana “Emek Shaveh”, impegnata a monitorare e proteggere i siti antichi per evitare che si trasformino in strumento politico nel conflitto israelo-palestinese, sia il comunicato degli archeologi italiani del pubblico impiego che denunciano l’intenzionalità delle distruzioni, la crescita del commercio illegale di beni archeologici nelle aree bombardate e lo sradicamento della popolazione palestinese, della sua identità collettiva e della sua memoria storica.
Ma il rapporto tra archeologia e potere nel Vicino Oriente è stato sempre così forte?
Non c’è nessuna altra scienza che, come l’archeologia, consente di concentrarsi su un territorio e di compiere osservazioni sul campo non solo di natura strettamente storica, ma che riguardando pure i fatti contemporanei. Mi viene in mente la figura emblematica di Lawrence d’Arabia, archeologo inglese, laureatosi con una tesi sui castelli crociati della Siria e della Palestina, poi divenuto agente segreto e fautore della rivolta araba contro la dominazione ottomana durante la prima guerra mondiale. E gli stessi regimi locali non disdegnano di richiamare un grande passato per proclamarsi eredi di antiche grandiose civiltà, come accadeva in Iraq all’epoca di Saddam. Ma non solamente lì. Senza andare geograficamente troppo lontani, pensiamo al ruolo che da noi, durante il Ventennio, venne assegnato all’archeologia: mettere in luce la grandezza della romanità, di cui il regime mussoliniano si dichiarava erede naturale.
Come vede il futuro a Gaza?
Sono pessimista, non solo per Gaza. Si sta seminando troppo odio, da entrambe le parti, e da troppo tempo. Tutto ciò, inevitabilmente, ricadrà sulle generazioni future e interesserà, prima o poi, anche l’Europa. Eppure l’archeologia, invece di essere usata come strumento di potere e di propaganda, sarebbe un ottimo ponte per unire e costruire la pace.
In che modo?
Faccio parte della schiera di allievi di padre Michele Piccirillo, un archeologo francescano che in Terra santa si è adoperato per il riavvicinamento dei popoli e il rispetto tra le grandi religioni monoteistiche. La sua scomparsa, nel 2008, ha lasciato un vuoto incalcolabile. A Umm al-Rasās, in Giordania, a circa 70 km a sud di Amman, nel 1986, padre Michele scoprì il pavimento musivo di una chiesa cristiana che era stato restaurato in epoca abbaside, cioè durante la seconda grande dinastia islamica, con capitale Baghdad (che era seguita a quella omayyade, con capitale Damasco). Tale scoperta ha dimostrato che molti decenni dopo la conquista araba della regione, nell’VIII secolo, erano ancora presenti comunità cristiane che convivevano con i nuovi dominatori, senza essere costrette alla conversione forzata o all’esilio, come sempre creduto in precedenza.
Secondo Lei è ancora possibile una convivenza ai giorni nostri?
Le rispondo con un ricordo personale. Nel 1997 sempre padre Michele organizzò ad Amman, sotto gli auspici di re Hussein, il primo convegno archeologico internazionale sul mosaico pavimentale della Carta di Madaba, una dettagliata rappresentazione della Terra Santa risalente al VI secolo. Arrivarono studiosi da tutto il mondo ed era la prima volta che in un paese arabo venivano ospitati anche archeologi israeliani. Se si vuole, si può.