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Nanoplastiche, l’inquinamento invisibile che sta uccidendo il pianeta

Le nonoplastiche e le microplastiche sono ovunque, nell’aria che respiriamo ogni giorno fino ai ghiacciai in Groenlandia. E sono un problema da affrontare la più presto.
A cura di Fabio Deotto
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Photo by China Photos/Getty Images
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La brutta notizia è che la plastica ormai è ovunque. La notizia ancora peggiore è che, in buona parte, è pure invisibile. La scorsa settimana sono state trovate nanoparticelle di plastica nei ghiacci dell’Antartide e della Groenlandia. Parliamo di ghiaccio che si è solidificato includendo al suo interno minuscole particelle di polietilene e polipropilene. Non è la prima volta che vengono trovate tracce di plastica in posti remoti e tendenzialmente lontani dalle fonti di inquinamento – nel 2019 una squadra di ricercatori tedeschi aveva trovato abbondanti tracce di microplastiche nelle nevi artiche e in quelle alpine – ma è la prima volta che viene certificata una presenza massiccia di particelle così minuscole. Lo studio in questione, condotto da Dušan Materić dell’Università di Utrecht, ha rivelato che la plastica è persino più pervasiva di quanto si temesse: i campioni prelevati in Groenlandia, per dire, hanno dimensioni molto più piccole e arrivano dal cuore della calotta glaciale, a 14 metri di profondità, vale a dire del ghiaccio che si è formato da strati di neve precipitata a partire dal 1965.

Nanoplastiche e microplastiche: cosa sono

Con il termine microplastica si intende qualunque tipo di frammento di plastica con una lunghezza inferiore ai 5 millimetri. Può trattarsi di componenti che vengono prodotti già con dimensioni minuscole, è il caso delle microfibre utilizzate dall’industria tessile, delle microsfere impiegate nei cosmetici e nei dentifrici, o i cosiddetti “nurdles”, pellet di plastica usati come base per la fabbricazione di altri prodotti (e che in questi giorni, a causa di un incidente, stanno invadendo le coste dello Sri Lanka). Ma nel computo delle microplastiche si contano anche quelle particelle derivanti dalla degradazione di bottigliette d’acqua, sacchetti di plastica, reti da pesca e degli altri innumerevoli rifiuti che ogni giorno vengono riversati nell’ecosistema. E poiché la plastica ci mette secoli a degradarsi del tutto, queste particelle rimangono negli ambienti in cui vengono rilasciate, per poi essere ingerite o respirate dalla fauna acquatica e terrestre. E non si pensi che gli esseri umani siano al riparo: considerando che tra le microparticelle che assumiamo direttamente e quelle che assimiliamo dagli animali che mangiamo, ogni persona in media ingerisce 50.000 particelle di microplastica ogni anno.

Le particelle trovate da Materić e colleghi hanno dimensioni inferiori al micron, e dunque rientrano nelle nanoplastiche. Si tratta di unità ancora meno visibili e contenibili, e sono sufficientemente leggere da potere essere trasportate dal vento o dalla pioggia. Le nanoplastiche rinvenute in Groenlandia erano per metà particelle di polietilene (PE) derivanti da sacchetti di plastica e imballaggi, per un quarto polvere derivante dall’abrasione dei pneumatici su strada, e per un quinto polietilene tereftalato (PET), il tipo di plastica usato per le bottigliette e vestiti. Le nanoplastiche trovate in Antartide avevano una composizione simile, ma non c’era quasi traccia di polveri di pneumatici.

Quali problemi per la salute

Se particelle prodotte dall’abrasione di pneumatici vengono ritrovate in posti remoti, dalla Groenlandia al Monte Everest, dal fondo dell’oceano alle foreste siberiane, significa che le nanoplastiche sono letteralmente ovunque, compresa l’aria che respiriamo ogni giorno. La cosa non dovrebbe stupirci più di tanto dato che sono anni che riceviamo dispacci sul progressivo declino della qualità dell’aria. Solo un paio di settimane fa è uscito uno studio che rivela come nell’atmosfera terrestre circolino oggi circa 350.000 diversi agenti inquinanti, e secondo i ricercatori dell’Università di Göteborg il ritmo con cui produciamo questi inquinanti è ormai tale che avremmo superato la soglia di controllo oltre la quale vengono messi a repentaglio i processi fisici e biologici che garantiscono la vita sulla Terra.

E poi naturalmente ci sono gli effetti sulla salute dei singoli individui. Ma qui la questione si complica, perché se da un lato abbiamo sempre più studi che certificano la diffusione intensa e pervasiva di micro e nanoplastiche, conosciamo ben poco sugli effetti che queste particelle hanno sulla nostra salute. Sappiamo però che i rischi maggiori sono legati alla nanoplastica, questo per via delle dimensioni molto ridotte, che potrebbero consentire a queste particelle di superare le membrane lipidiche e compromettere di conseguenza il funzionamento delle cellule. Abbiamo prova che questo succeda in alcuni organismi acquatici. La natura lipofilica delle nanoplastiche fa sì che penetrino facilmente nelle cellule dei pesci, per accumularsi nel pancreas, nella cistifellea e nel cervello. È stato dimostrato che nel pesce zebra l’accumulo di nanoplastica porti a un aumento del cortisolo, mentre nella pulce d’acqua crea problemi riproduttivi.

Photo by Joe Raedle/Getty Images
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Infiammazioni intestinali e altri potenziali effetti

Lo scorso dicembre è uscito uno studio dell’Università di Nanchino in cui viene valutata una possibile correlazione tra l’ingestione di microplastiche e disturbi intestinali: nel campione esaminato, i soggetti affetti da infiammazione cronica intestinale mostravano nelle feci una quantità doppia di microplastiche rispetto ai soggetti sani. Sono risultati interessanti, tuttavia non ancora sufficienti per stabilire una connessione tra l’ingestione di microplastiche e questo tipo di disturbi.

Del resto, le infiammazioni intestinali potrebbero essere il minore dei problemi. Negli ultimi tempi sono state trovate tracce di nanoplastiche in diversi tessuti umani e persino all’interno di feti abortiti, il che lascia supporre che parte della plastica che ingeriamo riesca a superare le barriere cellulari. È dunque possibile che, oltre a provocare l’infiammazione delle pareti intestinali, queste particelle abbiano incidenza sul microbiota intestinale, sul funzionamento del sistema immunitario e persino sul rischio di insorgenza di tumori. Ancora non è chiaro se le nanoplastiche siano in grado di superare la barriera ematoencefalica, in tal caso potrebbero avere effetti neurotossici.

Come dicevo, però, al momento non abbiamo elementi sicuri per stabilire che micro e nanoplastiche stiano compromettendo la salute umana. Questo per via dell’oggettiva difficoltà nell’isolare componenti così piccole dai tessuti umani, ma anche perché i team di ricerca che si stanno occupando della questione sono relativamente pochi.

Cosa stiamo facendo per arginare il problema (spoiler: non abbastanza)

La brutta notizia è che il peso della plastica presente oggi sul pianeta ha superato quello di tutti i mammiferi terrestri messi insieme. La notizia ancora peggiore è che questa quota è destinata ad aumentare: se le cose non cambiano, di qui al 2040 la quantità di plastica presente negli oceani è destinata a triplicare. Se così tanta plastica finisce negli oceani è anche perché solo il 9% di quella prodotta dagli anni 50 ad oggi è stata riciclata. E questo non perché non siamo abbastanza virtuosi, ma perché la possibilità di riciclare buona parte della plastica prodotta è di fatto un miraggio, o meglio una menzogna diffusa strumentalmente da quei grandi produttori (in massima parte aziende petrolifere e produttrici di bevande), che avevano tutto l’interesse a convincere il mondo che la plastica fosse un problema gestibile.

Ebbene, non lo è. Anche perché non c’è solo il problema delle microplastiche: la plastica viene prodotta utilizzando idrocarburi, quindi si appoggia allo stesso sistema fossile che dovremmo cercare di superare; non solo, lo stesso processo di produzione (e a quanto pare, di degradazione) comporta il rilascio di importanti quantità di carbonio nell’atmosfera. Per questo è fondamentale che vengano prese al più presto misure decisive per ridurre drasticamente l’impatto di questo materiale sugli ecosistemi.

Lo scorso 14 gennaio è entrata in vigore la direttiva europea SUP che bandisce l’utilizzo di plastica monouso, non biodegradabile e non compostabile, e naturalmente c’è già chi sta cercando di aggirarla puntando su prodotti “riutilizzabili” che quindi sfuggirebbero alla scure calibrata sui prodotti monouso. Ad ogni modo si tratta sicuramente di un passo in avanti, ma ce ne vorranno di altri (e di ben più coraggiosi) per affrontare seriamente il problema.

Stando al programma del Green New Deal europeo, nel 2022 la Commissione UE dovrebbe approvare una serie di misure per ridurre il rilascio di microplastiche nell’ambiente. Ma come abbiamo visto il problema è ormai troppo sfaccettato e diffuso per essere arginato con leggi mirate, c’è bisogno di un trattato internazionale, come quelli che vengono proposti per la conservazione della biodiversità o la riduzione dell’impiego di combustibili fossili, che stabilisca una normativa per ridurre al minimo l’impiego di plastica in ogni settore. Altrimenti, la concentrazione di nanoplastiche nel suolo, nelle acque e nell’aria è destinato a moltiplicarsi. Un altro problema “invisibile” che rimandiamo a quando sarà troppo tardi.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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