L’uomo a cui Carretta confessò di aver sterminato la famiglia: “Capii quando disse: ‘Se non potessero sentire?’”

Il 4 agosto 1989 quattro persone sparirono dalla loro casa di Parma. Si chiamavano Giuseppe Carretta, Marta Chezzi, sua moglie, e i loro due figli, Ferdinando, 26 anni, e Nicola, 22. Iniziò così il “caso Carretta”, un giallo che diventerà uno dei più discussi casi di cronaca del nostro Paese.
Solo dieci anni dopo si arrivò a una svolta inaspettata. Nel 1998 il figlio maggiore, fermato dalla polizia di Londra per un’infrazione stradale, fu segnalato all'Interpol. Prima disse di non sapere nulla dei familiari. Poi, pochi giorni dopo, confessò a un giornalista di Chi l’ha visto? di averli uccisi tutti.
Il giornalista è Giuseppe ‘Pino' Rinaldi che, raggiunto telefonicamente da Fanpage.it, ha ripercorso la vicenda, ricordando il momento della confessione, e ha raccontato il suo rapporto con Ferdinando Carretta, con cui è rimasto in contatto fino alla sua morte, avvenuta nel 2013.
Come hai iniziato a lavorare al ‘caso Carretta'?
È una storia lunga. Lavoravo a ‘Chi l'ha visto?' e, qualche anno dopo la scomparsa dei Carretta, alla fine del 1995, uscirono una serie di articoli nei quali la famiglia veniva segnalata in varie parti del mondo. Quindi, decisi di partire per il Centro America, per cercare di parlare con le persone che avevano raccontato di averli visti.

Non trovai nulla. Mi rivolsi anche a uno dei maggiori esponenti del gruppo degli emigranti italiani in Venezuela, una realtà numerosa e potente. Mi disse che se loro fossero stati veramente lì, a lui la notizia sarebbe arrivata. A quel punto rientrai e raccontai quello che avevo trovato.
La ricordo come un'esperienza abbastanza infelice. Già nel 1992 un famoso giornalista della Rai diede per primo la notizia dell'avvistamento dei Carretta ai Caraibi. Una traccia che, come quelle uscite successivamente, si rivelò totalmente inconsistente.
Cosa successe tre anni dopo quel viaggio?
Arrivò una telefonata. Ero a Roma, stavo lavorando su altre cose e mi chiamò l'Interpol. Mi dissero: ‘Tutti i tuoi colleghi sono a Londra, hanno scoperto dove vive Ferdinando Carretta. E tu che fai? Stai a Roma?'.
Riferii di questa telefonata all'autore del programma e partii subito con un operatore, Gianlorenzo Gregoretti. Arrivai a Londra a notte fonda e incontrai subito Carretta.
Arrivammo nel quartiere dove viveva ed entrammo a casa sua, saranno state le 10/11 di sera. Fu un incontro molto cortese, Carretta conosceva ‘Chi l'ha visto?' e fu gentile, come lo fu con tutti gli altri giornalisti che avevano voluto parlare con lui.
Cosa vi raccontò?
Iniziammo a chiacchierare, ci disse quello che aveva riferito all'Interpol e alla stampa: che effettivamente i suoi familiari erano spariti e confermò anche la storia del famoso ‘nero' della Bormioli (in quegli anni infatti si era diffusa la voce che Giuseppe Carretta fosse scappato portando con sé 10 miliardi di lire sottratti all'azienda dove lavorava, fondi neri mai denunciati, ndr).
L'Italia in quegli anni aveva vissuto la vicenda dei Carretta come se fossero degli eroi, dei moderni Robin Hood che avevano rubato questi fondi neri. Ferdinando disse che erano partiti, che il padre aveva portato con sé il nero dell'azienda ma che a Londra avevano litigato. Lui era rimasto lì e la famiglia era andata via, ma diceva di non sapere dove fossero.

All'epoca non ero ancora giornalista e non avevo smanie di fare lo scoop. Ma la sera dell'incontro con Carretta mi venne un'idea. Lui mi disse che non voleva rilasciare interviste.
Gli chiesi quindi se, visto che erano 10 anni che aveva litigato con i suoi familiari e che mancavano pochi giorni al Natale, avesse voglia di fare un appello. E lo avremmo potuto mandare in onda anche all'estero, in Centro America, tramite conoscenze che avevo coltivato lavorando.
Cosa rispose?
Carretta disse nuovamente di non volerlo fare. Ma quando glielo richiesi una seconda volta mi rispose: ‘Giuseppe, chiamandomi per nome e non Pino, ma se non potessero sentire?'.
In quell'istante capii cosa era successo. Non girammo un centimetro di nastro, nemmeno di nascosto, vista la delicatezza della situazione. Nell'arco di due/tre ore mi raccontò tutto quello che aveva fatto, ogni cosa.
Hai mai pensato che stesse mentendo?
No, non ho mai avuto dubbi su quello che mi stava raccontando. Due cose mi colpirono particolarmente. La prima quando mi disse: ‘Ma tu hai mai sentito l'odore della morte?'. Io, purtroppo, l'avevo sentito e quell'odore non lo dimentichi mai.
Lui l'aveva sentito, aveva tenuto in bagno per alcuni giorni i corpi del padre, della madre e del fratello prima di disfarsene alla discarica di via Rolo e di lasciare l'Italia.
La seconda fu il modo in cui raccontava i fatti. In alcuni momenti era una persona sofferente, chiusa nel più profondo dolore, faceva quasi fatica a parlare. In altri, invece, quando mi descriveva la dinamica, era freddo, lucido, una macchina.
Hai avuto paura?
Sì, in due occasioni. Mentre raccontava quello che aveva fatto, gli chiesi un bicchiere d'acqua. Io e l'operatore sentimmo rumori metallici, ci guardammo e pensammo: ‘Oddio, non è che ha una pistola?'.
Poi, prima che ripartissimo per l'Italia, ho avuto paura per lui: era sconvolto, agitatissimo, temetti che potesse suicidarsi.
Perché pensi che abbia confessato a voi quello che aveva fatto?
Nella perizia di Cesare Piccinini (il perito d'ufficio che si occupò di eseguire la valutazione psichiatrica su Carretta, ndr) c'è una frase che disse Ferdinando.
"Alle due di notte gliel'ho detto ed è stato liberatorio, è successo tutto molto stranamente. Alle due di notte gliel'ho detto, qualcosa mi diceva di dirglielo. Era come qualcosa di simile al destino", queste sono state le sue parole.
Non so perché abbia confessato a noi questa cosa, ma io mi sono semplicemente comportato come un essere umano. Mi sono sentito responsabile di questa persona e in tre giorni sono riuscito a convincerlo a tornare in Italia e a confessare tutto alla polizia.
L'intervista andò in onda solo dopo la sua confessione agli inquirenti, il rapporto con le autorità fu di estremo rispetto. Gli ho chiesto l'intervista perché ero lì per ‘Chi l'ha visto?' ma anche perché non volevo che altri giornalisti si inventassero su di lui qualunque cosa. Volevo che raccontasse la storia come l'aveva raccontata a me.
E infatti non è passato come un mostro, ma come una persona con grossi problemi psichiatrici e che viveva una situazione familiare molto difficile. Come disse Piccinini, se fosse stato preso in tempo, non staremmo qui a parlare del ‘caso Carretta'.
Tu hai mantenuto un rapporto con Ferdinando, anche dopo la sua scarcerazione (Carretta fu condannato alla detenzione in una struttura psichiatrica. Poi passò alla semilibertà nel 2004 e alla libertà completa nel 2015, ndr). Cosa ricordi?
Sì, ci sentivamo e ci siamo anche incontrati. Prima che morisse nel 2023, mi disse: ‘Pino, perché invece di ucciderli non sono scappato?'. Era la stessa cosa che gli chiesi io durante il nostro primo incontro a Londra.
Nel 1998 lui mi rispose: ‘Perché mio padre era nella mia testa'. Ferdinando ha impiegato anni per fare quel salto e comprendere una cosa che una persona ‘normale' avrebbe compreso nell'immediato. Se fosse tornato indietro, non l'avrebbe mai fatto. E questo è il segno che era guarito.
Lui fece questa cosa per sopravvivere e liberarsi della figura del padre che era incombente. Nella malattia mentale c'è una confusione che si genera tra il piano reale e quello simbolico. Ogni figlio maschio vuole uccidere il proprio padre ma lui, come emerse anche dalle perizie, confuse i due piani.