
Un uomo viene aggredito in un autogrill e il sistema mediatico italiano reagisce immediatamente: editoriali, interviste, dichiarazioni ufficiali parlano di antisemitismo. Il video sembrerebbe confermare questa lettura, e ogni forma di razzismo va giustamente condannata. Tuttavia, emerge la versione degli accusati, i quali affermano di essere stati aggrediti perché parlavano arabo e indossavano ciondoli palestinesi, venendo etichettati come “terroristi”; hanno sporto denuncia, allegando un referto ospedaliero per una testata e un pugno ricevuti.
Il punto, però, non è stabilire chi abbia ragione, anche perché oggi si tende a giudicare prematuramente, persino da parte dei giornalisti. La vera domanda, spesso taciuta, è un’altra: perché alcuni razzismi vengono immediatamente riconosciuti e condannati, mentre altri restano senza nome? Perché l’antislamismo, pur in forte crescita e documentato da dati e istituzioni internazionali, continua a non entrare nel linguaggio politico e mediatico? Davanti a violenze strutturali, discriminazioni sistemiche, pulizie etniche e tragedie umanitarie accertate, continuiamo a esitare, come se mancassero le parole — o la volontà — per nominarle.
Il razzismo verso il mondo musulmano – l’antislamismo – è sistemico, quotidiano, diffuso nelle strade così come sui social sia di cittadini comuni sia di importanti personalità politiche. Eppure resta invisibile. Non perché non esista, ma perché non ha cittadinanza nel linguaggio della politica e dell'informazione mainstream.
I numeri che non vogliamo vedere
In Italia, l’antisemitismo è raddoppiato nell’ultimo anno. 877 casi di cui 600 online. Tutto ciò fa rabbrividire. I report sulle discriminazioni però parlano chiaro: i musulmani nel 2023 hanno subito 1.106 crimini d’odio, il 26% in più. Uno è in crescita ora e ce ne accorgiamo. L’altro è ancora più in crescita da anni, ma lo ignoriamo. Oltre alla violenza, tra i musulmani, il 34% ha dichiarato di aver subito discriminazioni nella vita quotidiana; il 37% ha subito discriminazione nella ricerca di lavoro, il 32% nell’accesso alla casa.
Nell’ultimo decennio, in Europa e in Italia, l’antislamismo è la forma di razzismo in più rapida crescita. Eppure, la parola stessa – “antislamismo” – è assente dal dibattito pubblico. È come se non potesse esistere. Come se denunciare l’odio verso i musulmani fosse una colpa. Come se parlarne significasse “giustificare il terrorismo”, o “attaccare l’Occidente”. E per alcuni (molti) lo è. Bisogna infatti avere il coraggio di fare un discorso oggettivo e a 360 gradi, altrimenti si rischia di cadere in una narrazione da bispensiero Orwelliano, dove si considerano certi gravi fatti di razzismo solo quando colpiscono qualcuno che ci rappresenta o con cui empatizziamo.
L’estremismo politico travestito da antirazzismo
Uno dei recenti casi di antisemitismo riguarda un gruppo di 50 bambini francesi che, cantando in ebraico, sono stati allontanati da un volo Vueling. I media hanno attribuito l’episodio all’antisemitismo e alle “bugie di Hamas”, mentre la compagnia ha chiarito che trasporta persone di ogni origine senza problemi e che il gruppo stava violando le misure di sicurezza, mettendo a rischio i passeggeri, tentando persino di aprire i dispositivi di emergenza. Al di là della verità dei fatti, colpisce che il Simon Wiesenthal Center abbia chiesto giustamente un’indagine indipendente per l’episodio, ma abbia poi definito “una giustificazione dei crimini di Hamas” la proposta dell’ONU di avviare un’indagine indipendente sui crimini commessi a Gaza.
Questo mostra un doppio standard: ciò che è giusto per alcuni, non vale per altri. Ne deriva una narrazione distorta in cui chiunque critichi Israele o il sionismo, anche con rispetto verso il popolo ebraico, viene accusato di antisemitismo. Emblematico è il caso di Francesca Albanese, esperta ONU italiana, sanzionata per “virulento antisemitismo” dopo aver denunciato le aziende occidentali che traggono profitto dallo sterminio. Una sanzione che la equipara ai coloni armati che aggrediscono i palestinesi per sottrarre loro la terra. Paradossalmente, a Yinon Levy — che qualche giorno fa ha sparato all’attivista Awda Hataleen in Cisgiordania — gli USA sotto Trump hanno revocato le sanzioni per crimini contro i palestinesi. Viene sanzionato più severamente chi denuncia crimini che chi quei crimini li commette. Secondo Netanyahu, Persino la Corte criminale internazionale (ICC) è antisemita perché sta indagando “su finti crimini di guerra”. Chi critica Israele è dunque un razzista, anche quando lo fa nel rispetto degli ebrei e del diritto internazionale.
Il razzismo (e il genocidio) selettivo
Il punto è che in Occidente il razzismo viene riconosciuto solo quando tocca certe categorie. Alcuni hanno diritto alla protezione, altri no. Alcuni hanno diritto alla memoria, altri vengono ridotti a statistiche, o a "effetti collaterali". Negli ultimi 25 anni abbiamo mosso guerra tra Afghanistan, Iraq, Libia, Siria e Iran causando centinaia di migliaia di morti civili.
Qualche anno fa veniva chiamato genocidio quanto accadeva nello Xinjiang cinese nei confronti degli arabi e si parlava di “campi di concentramento”. Nonostante anche qui fosse palese il razzismo, l’islamofobia non era il nemico della narrazione, i cinesi lo erano. Infatti, lo definivano in questi termini gli stessi giornalisti e testate che oggi fanno fatica a chiamare genocidio e campo di concentramento quanto accade a Gaza, anche se si tratta di un’atrocità infinitamente peggiore e difficilmente paragonabile in termini di vittime o crimini.
Infatti, anche per gli storici Israeliani dell’olocausto come Bartov, Blatman, Goldberg si tratta di un genocidio, per alcune NGO israleiane è genocidio, per l’ex primo ministro israeliano Ehud Olmert il “piano umanitario” di Netanyahu a Gaza è un “campo di concentramento”. La domanda sorge spontanea, anche tutti loro sono antisemiti?
Chi stabilisce cosa è razzismo?
La violenza verbale e fisica verso il mondo islamico, invece, non ha avuto bisogno di eventi recenti per essere sdoganata. È vent’anni che politici e opinionisti parlano pubblicamente di “invasione islamica”, di “cultura incompatibile”, di “nemico interno”. Nessuna indagine, nessuna indignazione mediatica. C’è chi ha titolato “Bastardi Islamici” violando ogni deontologia. Alcuni di loro oggi sono al governo, altri dirigono testate, improvvisamente, dopo avere fomentato e negato il razzismo sugli islamici per anni, sono diventati paladini della lotta al razzismo. Ma solo quello che conviene.
Pensiamo anche a come negli Stati Uniti e in Italia, il peggior terrorismo degli ultimi decenni – in termini di vittime totali – non è stato commesso da islamici, ma da supreamtisti bianchi (dal 2001 le sparatorie hanno causato oltre 3000 vittime, più dell’11 settembre) o estremisti di destra (come gli attivisti della Lega e di Casapound colpevoli della strage di Firenze e Macerata, personaggi che negano l’olocausto o glorificano Hitler, e che paradossalmente, sostenevano ideologie e gruppi oggi vicini a Meloni, la quale sostiene Trump e Israele). Eppure, è il volto del musulmano quello che viene associato alla minaccia. È su quel volto che si scarica la diffidenza, la discriminazione, la violenza quotidiana.
Il razzismo in Israele
Pur essendo linguista, l’autore evita di approfondire il dibattito sull’etimologia del termine “semitico”, che include sia ebrei sia arabi, per concentrarsi invece sul razzismo sistemico e istituzionalizzato presente in Israele da oltre 30 anni, assimilabile a un regime di apartheid. Questo sistema si manifesta attraverso leggi e norme che opprimono una parte della popolazione: ad esempio, un ebreo israeliano può usufruire della Legge del ritorno, ottenendo automaticamente la cittadinanza, mentre i palestinesi rifugiati e i loro discendenti non possono tornare. Esistono inoltre discriminazioni nei ricongiungimenti familiari, limitazioni al movimento (strade vietate ai palestinesi), e disuguaglianze nell’accesso a terra, acqua, giustizia, sanità, istruzione e finanziamenti.
Ci si chiede perché tutto ciò non venga riconosciuto come razzismo antislamico, anche se importanti organizzazioni e figure internazionali — tra cui Human Rights Watch, Amnesty International, B’Tselem, la Nelson Mandela Foundation, vari esperti ONU e l’ex presidente USA Jimmy Carter (accusato anche lui di antisemitismo) — ne parlano esplicitamente in questi termini. In parallelo, viene sottolineata la crescente discriminazione anche verso i cristiani in Israele, con 111 episodi nell’ultimo anno, 157 attacchi a chiese in cinque anni, e con l’accesso a Gerusalemme per la Pasqua 2025 limitato a 4.000 cristiani su 50.000 residenti in Cisgiordania. Molti hanno denunciato molestie da parte di polizia e coloni, mentre i discorsi d’odio contro i cristiani sono in aumento, alimentati anche dall’attuale governo. Secondo ONG palestinesi, i cristiani soffrono — pur in misura diversa — degli stessi meccanismi di oppressione riservati ai palestinesi: confisca delle terre, limitazioni e abusi.
Perché esiste il doppio standard
Condannare l’antisemitismo è doveroso. Ma farlo senza mai nominare l’antislamismo, senza ammettere l’evidente sproporzione nella protezione mediatica e politica, è propaganda. Non è giustizia, è selezione etnica travestita da coscienza. Quando il ministro Tajani afferma che “la Palestina deve riconoscere Israele per essere riconosciuta”, dimentica che la Palestina ha riconosciuto Israele dal 1993. Israele, invece, non ha mai riconosciuto lo Stato di Palestina. Ecco: parlare di antisemitismo ignorando l’antislamismo è lo stesso cortocircuito logico. È pretendere un equilibrio dove non c’è reciprocità. È difendere i diritti umani a metà. E’ parlare di conseguenze senza le cause.
Il doppio standard nasce dalla mancanza di riconoscimento e reciprocità storica. Dopo la Prima guerra mondiale, con l’accordo Sykes-Picot, fu promesso agli arabi uno Stato Islamico che non venne mai realizzato, anzi fu ostacolato. Dopo la Seconda guerra mondiale, invece, nacque Israele e l’ebreo perseguitato fu inserito nel “pantheon” del dolore europeo, mentre il dolore dell’islamico o del colonizzato rimase invisibile. Durante la Guerra Fredda, gli USA sostennero i mujaheddin afghani contro l’URSS, ma dopo l’11 settembre 2001 il mondo arabo venne trasformato in una minaccia, e i mujaheddin divennero i nuovi nemici insieme allo Stato Islamico, nato in risposta a promesse occidentali disattese. Analogamente, ex funzionari israeliani hanno ammesso che Israele finanziò Hamas per indebolire Arafat e i laici favorevoli alla pace con Rabin (ucciso da un estremista sionista, con Netanyahu protagonista di quella campagna d’odio). Arafat stesso disse che Hamas non sarebbe esistita senza Israele.
Al netto di come la si pensi, la creazione del nemico richiede una narrativa che si presenti come vittima e deumanizzi l’altro. Così un palestinese che uccide è un terrorista, un israeliano che bombarda si difende; un imam che parla è propaganda, un rabbino spiritualità; un islamico che denuncia è antisemita, un occidentale che invade è un liberatore. Questa narrazione legittima guerre, censura le critiche e rafforza l’illusione di superiorità morale. Se crolla questo doppio standard, cade l’intera costruzione mediatica interiorizzata dalla persone in buonafede come “oggettiva”. Perciò, chi esprime un pensiero critico è spesso visto come “radicale”, anche se chiede cose su cui dovremmo essere tutti d’accordo, come fermare la violenza contro i bambini.
Antirazzismo a geometria variabile
O si condanna il razzismo sempre, oppure non si condanna affatto. Non si può usare la memoria della Shoah come uno scudo per giustificare altre violenze. Il “mai più” o vale per tutti, o è una bugia che non vale per nessuno. Una bugia grave, perché svuota la memoria, la strumentalizza, e contribuisce a creare nuove gerarchie di umanità. Il più grande insulto alle vittime di quelle atrocità che commemoriamo. Nel silenzio mediatico-politico sull’antislamismo e nella mobilitazione intorno ad altre forme di odio razziale, nel paragonare situazioni profondamente diverse con metri disuguali, si legge il fallimento morale dell’Occidente. Non sono solo i politici a esserne complici, ma anche gli intellettuali e gli opinionisti che continuano a ignorare la realtà o, peggio, a sostenerla inconsapevolmente.
Parlare di antisemitismo è doveroso. Ma se non accompagniamo questa battaglia con una condanna altrettanto netta di ogni forma di razzismo, rischiamo di renderla parziale e quindi fragile, fomentando un pericoloso doppio standard. Ed è proprio questo che alimenta il razzismo che si vuole contrastare a parole: il rifiuto di vedere l’altro, la volontà di ignorarlo, l’idea che alcune vite valgano più di altre. Se questo è il nostro antirazzismo, allora è un antirazzismo che fa paura.
