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La punizione per gli stalker? Il divieto di sguardo

Secondo i giudici della Cassazione il divieto di avvicinamento e di comunicazione nei confronti di uno stalker comporta un “comportamento specifico” che può riguardare anche il “non guardare” la vittima. E’ quanto si evince dalla sentenza 5664 della quinta sezione penale della Suprema Corte.
A cura di Biagio Chiariello
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Un indagato per stalking al quale nei confronti del qual il giudice ha applicato la misura cautelare non può neanche guardare la sua vittima. E’ quanto si evince dalla sentenza 5664 della quinta sezione penale di Corte di Cassazione che fornisce una sorta di decalogo sulle misure a protezione della vittima di atti persecutori. deve specificare Dal divieto assoluto di avvicinamento e comunicazione alla persona offesa all'"individuazione" precisa dei luoghi cui non deve avvicinarsi: il giudice deve specificare quale sia il comportamento che il presunto stalker deve rispettare, affinché venga assicurata l'effettività della misura e per meglio tutelare la vittima. Per i giudici della Supremo Corte, dunque, applicare il divieto di avvicinamento e di comunicazione, comporta un "comportamento specifico": quello "di non cercare contatti", "non avvicinarsi fisicamente", "non rivolgersi a lei con la parola o lo scritto", fino al "non guardarla (quando o sguardo assume la funzione di esprimere sentimenti e stati d'animo): insomma, non fare tutto ciò che lo stalker è solito fare e che i soggetti appartenenti alla detta categoria comprendono benissimo", spiegano i giudici. In questo modo, per altro, "la sfera di libertà non è affatto compromessa in maniera indefinita o eccessiva, ma solo nella misura strettamente necessaria alla tutela della vittima".

Il caso a cui fa riferimento al sentenza è quello di un uomo cui il tribunale di Venezia aveva stabilito la misura cautela del "divieto di avvicinamento ai luoghi abitualmente frequentati dalla vittima", oltre che in due interi paesi. Un provvedimento, secondo la Cassazione (che l'ha annullata con rinvio per un nuovo esame), "eccessivamente generico" e quindi imprecisa: l'indicazione "generica del luogo interdetto non è funzionale alle esigenze che si vogliono tutelare", questo "sia perché l'obbligato non può sapere quali siano" i luoghi abitualmente frequentati dalla vittima, "peraltro normalmente destinati a variare a seconda delle esigenze e delle abitudini della persona, sia perché la misura assumerebbe una elasticità dipendente dalle decisioni (o anche dal capriccio) dell'offeso, a cui verrebbe rimesso, sostanzialmente di stabilire il contenuto della misura". "E' compito del giudice di merito – concludono gli ermellini – stabilire, in base alle concrete connotazioni assunte dalla condotta invasiva dell'agente, se questi debba tenersi lontano da luoghi determinati, in questo caso da indicare specificamente" o "se debba tenersi lontano, puramente e semplicemente dalla persona offesa; e se una siffatta prescrizione debba essere accompagnata da divieti di comunicare, anche con mezzi tecnici con quest'ultima".

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