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Il futurista Poli: “Coronavirus? È l’ultima occasione per liberarci dalla trappola del presente”

Parla Roberto Poli, cattedra Unesco sui sistemi anticipanti: “Se la crisi durerà ancora a lungo, abbiamo di fronte due strade: nella prima saremo bande arrabbiate che si litigheranno risorse scarse. La seconda strada? Uscire dalla trappola del presente. Smartworking? Ne abbiamo parlato per anni e ci siamo fatti trovare impreparati”.
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“Noi ci chiamiamo futuristi, non futurologi”. Chissà quante volte Roberto Poli, professore del dipartimento di Sociologia e Ricerca Sociale dell’università di Trento e cattedra Unesco sui sistemi anticipanti, ha dovuto fare questa premessa. Eppure, nel mondo che si affaccia all’era della post pandemia, poter contare sullo sguardo lungo di chi studia i grandi trend globali e cerca di proiettarli negli anni a venire, è una necessità, più che un privilegio.  Non è un caso, quindi, che lo stesso Poli sia stato coinvolto nel gruppo di lavoro della provincia di Trento “per aiutare la commissione a ragionare sulla ripartenza più nel lungo periodo”.

Domanda d’obbligo, professor Poli: come va a finire, tutta questa storia?

Non sono un indovino, ma credo ci siano tre possibili vie d’uscita: se ci fosse una fine breve della crisi – ipotesi a oggi abbastanza remota, purtroppo – credo che il dopo sarà business as usual. Eravamo prima nella gabbia del presente, a fare le cose giorno per giorno, torneremo a fare le stesse cose.

Se invece non ci fosse un uscita a breve dalla crisi?

Se invece la crisi dovesse durare a lungo, con delle fasi in cui gli attacchi ritornano in intervalli discreti, io vedo due scenari estremi.

Il primo scenario?

È quello di una frammentazione del tessuto sociale con la trasformazione del Paese in gruppi, gruppetti, bande arrabbiate le une con le altre. Tutte impegnate a giocare per la loro sopravvivenza, a cercare di prendersi per se le poche risorse rimaste.

Il secondo scenario?

L’altra possibilità è che la crisi venga usata per capire che questo, quello del Coronavirus, non è che uno dei tanti cambiamenti in arrivo. E un occasione per aprire un bagliore di futuro nel Paese. Queste due strade conducono a due destini completamente diversi: nei primi due casi – quello del business as usual e quello delle “bande arrabbiate” – la crisi è solamente un costo. Costo di migliaia di morti, cui si somma il costo di miliardi di euro. Il terzo scenario non toglie nulla ai costi umani, economici e sociali di questa crisi, purtroppo, ma aiuta a rimettere tutto in una direzione positiva.

Quale prevarrà, secondo lei?

Allo stato attuale non è possibile nemmeno provare a immaginare qualche dei due scenari sarà quello che prevarrà.

In che senso non è prevedibile?

Perché la situazione è ancora fluida e in divenire. E proprio per questo, noi abbiamo ancora un ruolo nel plasmarla, nel trasformale un processo magmatico in qualcosa di strutturale. Quel che istituzioni, parti sociali e aziende faranno è fondamentale.

Prima di chiedersi cosa fare, è importante che capiscono cosa sta succedendo…

Questa pandemia di Coronavirus è un grande cambiamento in atto, ma non è che uno dei tanti grandi cambiamenti in atto. E per questo dobbiamo lavorare: affinché siamo in grado di affrontare questi cambiamenti, quando arriveranno.

Di quali cambiamenti parla?

Cambiamenti demografici relativi all’invecchiamento della popolazione, cambiamento delle tecnologie, cambiamento del clima, cambiamento degli assetti geopolitici del mondo: si tratta di cambiamenti che non possiamo affrontare uno alla volta, peraltro. Non è che possiamo dire: adesso affronto la crisi tecnologica e poi me la vedo con il clima. Dobbiamo per forza di cosa gestire tutti i cambiamenti assieme.

Altrimenti?

Altrimenti arriveranno comunque e ci coglieranno impreparati. Serve grande trasparenza nelle decisione, grazie responsabilità nelle previsioni. E molto coraggio, pure.

Trasparenza, responsabilità e coraggio: non esattamente le caratteristiche dell’Italia di oggi

È vero, arriviamo a questa crisi già in grande difficoltà, a causa soprattutto di un debito pubblico che abbiamo accumulato nei decenni precedenti, figlio di scelte improprie che si sono succedute nel corso degli anni. È chiaro che quando hai un debito enorme devi usare buona parte di quelle risorse per ripagare il debito, e hai spazi di manovra inferiori rispetto ad altri Paesi. Ma non è nemmeno questo il vero problema.

Qual è?

Mentre abbiamo accumulato quel debito ci siamo rinchiusi nella “trappola del presente”, tirando avanti giorno per giorno senza la determinazione e il coraggio di costruire una visione strategica.

Perché è importante avere una visione strategica?

Se non hai una visione strategica le decisioni che prendi finiscono per annullarsi, ogni volta che cambia il timoniere: un giorno vado a destra, il giorno dopo vado a sinistra. E finisco per rimanere sempre fermo.

È difficile non vivere alla giornata, in questa situazione, però…

Vivere giorno per giorno è una forzatura patologica: vive così il malato terminale, o la persona che ha delle dipendenze. Una persona sana, così come comunità sana, fa progetti, ha desideri, o perlomeno un’idea del proprio futuro. Peraltro, se tu sei fermo, intrappolato nel presente, e gli altri corrono prima o poi il tuo immobilismo lo paghi.

L’Italia è fregata, quindi…

L’Italia ha delle risorse: è un Paese ricco, innanzitutto. Se come comunità ricominciamo a costruire un discorso di futuro le risorse ce le abbiamo ancora. Se non sai dove andare quelle risorse non servono a nulla.

Nel frattempo le nostre comunità le nostre scuole e le nostre imprese si sono trovate impreparate nell’organizzazione della didattica a distanza e del lavoro da casa…

È paradossale, questo, ma rende bene l’idea: noi per anni abbiamo parlato di industria 4.0, di cui lo smartworking è una parte essenziale. Abbiamo fatto convegni su convegni e alla fine erano tutte “ciacole”, chiacchiere, perché nessuna impresa si è realmente preparata allo smartworking. Cosa che serviva oggi e che servirà soprattutto domani.

In che senso servirà domani?

In senso autentico, lo smartworking non vuol dire lavorare da casa. La casa, nella normalità, non deve diventare una prigione da cui non esci mai. Vuol dire che io non voglio perdere due ore a fare il pendolare, la mattina e la sera per andare al lavoro. Se io riesco ad andare al lavoro a 10 minuti da casa, guadagno due ore di tempo. Per farlo, però, devono esserci strutture adeguate per farlo. E bisogna capire che si lavora in modo diverso rispetto a come si lavorava prima.

È questo ciò su cui serve ragionare ora, secondo lei?

Per farlo bisogna ragionarci in modo serio, però. Creare gli spazi per farlo, recuperando ad esempio un patrimonio edilizio che nelle piccole città sarebbe abbandonato. Ora ci poniamo il problema dei mezzi pubblici e del loro affollamento come veicolo di contagio, in un mondo che riparte dopo la pandemia. Ma nessuno, dopo due mesi di quarantena, ancora pensa allo smartworking come un’opportunità. Ecco cosa vuol dire essere prigionieri nella trappola del presente.

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Francesco Cancellato è direttore responsabile del giornale online Fanpage.it. Dal dicembre 2014 al settembre 2019 è stato direttore del quotidiano online Linkiesta.it. È autore di “Fattore G. Perché i tedeschi hanno ragione” (UBE, 2016), “Né sfruttati né bamboccioni. Risolvere la questione generazionale per salvare l’Italia” (Egea, 2018) e “Il Muro. 15 storie dalla fine della guerra fredda” (Egea, 2019)
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