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Cambiamenti climatici

Dalle Marche al Sudafrica: perché dobbiamo prepararci a vivere in un mondo sempre meno prevedibile

Dalle Marche al Sudafrica il clima sembra impazzito, ma così non è, ci sono responsabilità precise, ma siamo ancora in tempo per tentare di mantenere una certa stabilità.
A cura di Fabio Deotto
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Foto Gabriele Moroni/LaPresse
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Prima c’è stata l’alluvione in Sudafrica, che a gennaio ha devastato il sobborgo di Mdantsane uccidendo 14 persone e lasciandone centinaia senza un tetto; poi sono iniziate le alluvioni in Pakistan, che da giugno ad agosto hanno ucciso 1545 persone, arrivando a coprire d’acqua un terzo della superficie del paese; poi, la scorsa settimana, un violento nubifragio si è abbattuto sulle Marche, riversando in poche ore la pioggia di tutta una stagione, trasformando le strade in fiumi, causando morti e distruzione.

In tutti e tre i casi si è parlato di situazioni imprevedibili, eventi eccezionali pronti a entrare nei libri di storia, ma è sufficiente considerare il contesto in cui sono avvenuti per capire che, per quanto fuori scala, queste alluvioni hanno dei punti in comune, a cominciare da fatto di essere state precedute da periodi di drammatica siccità. Quelle che ci appaiono dunque come situazioni scollegate, sono in realtà manifestazioni dello stesso problema, la crisi climatica, che sta letteralmente smantellando il nostro concetto di normalità. Per capire perché è necessario allargare lo sguardo agli ultimi 10.000 anni e prepararci a riconsiderare il nostro concetto di normalità.

Una civiltà costruita su una stabilità illusoria

Una delle argomentazioni più care ai negazionisti del cambiamento climatico è che il clima è sempre cambiato: “Non è colpa dell’essere umano – dicono -. Si tratta di cicli che sfuggono al nostro controllo". Quello di cui non si rendono conto è che, per certi versi, hanno sia ragione che torto. Perché è vero che il clima è sempre cambiato, nel corso della storia di questo pianeta le temperature sono salite e scese, e in altri punti lungo il percorso il clima si è fatto talmente inospitale che non avrebbe potuto fare da culla alla civiltà umana; ma si trattava di cambiamenti che avvenivano con tempistiche geologiche: ci volevano migliaia e migliaia di anni per registrare un aumento medio di un grado centigrado, mentre per creare gli 1,2 gradi di riscaldamento globale che oggi già ci creano tanti problemi ci abbiamo messo meno di tre secoli.

Un’altra cosa che si tende a ignorare è che sì, il clima è sempre cambiato, ma prima che l’essere umano iniziasse a sputare gas serra nell’atmosfera stava cambiando assai meno del solito. Basta guardare l’andamento delle temperature globali stimate per gli ultimi milioni di anni per rendersi conto che dalla fine dell’era glaciale, all’incirca 11.000 anni fa, la basculazione delle temperature si è ridotta assestandosi su un sostanziale plateau. Questo periodo di variazioni climatiche limitate è ciò che ha consentito all’essere umano di costruire una civiltà, migliorare la propria qualità di vita, crescere di numero e, sostanzialmente, prendere possesso del pianeta.

Il perché è facilmente intuibile: un clima stabile forniva una serie di punti di riferimento su cui basarsi per organizzare il lavoro e l’agricoltura, oltre che per pianificare insediamenti che potessero garantire un approvvigionamento di acqua e risorse senza incorrere continuamente in eventi metereologici estremi; in parole povere: senza questi 10.000 anni di sostanziale stabilità non avremmo compiuto i formidabili progressi che l’umanità oggi può vantare, non avremmo sviluppato la tecnologia necessaria per estrarre combustibili fossili dal terreno, non avremmo istituito un sistema economico globale basato sulla crescita e il profitto. Ma proprio perché abbiamo basato il nostro sistema produttivo sulle fonti fossili e sul profitto, negli ultimi 200 anni abbiamo emesso così tanti gas serra che oggi quel plateau è irrimediabilmente compromesso.

La morte della stazionarietà

Il 2022 è stato un anno nero per l’agricoltura, in particolare nel nostro paese. La grave siccità che ha colpito la maggior parte del territorio nazionale a partire dallo scorso gennaio ha causato danni enormi: riduzione del 35% per la produzione di albicocche, pesche, pere, mele e ciliegie, del 50% nel caso del mais e della soia, del 25% per grano e cereali e del 40% per olive e olio. A peggiorare la situazione è intervenuto, nelle zone del Delta del Po, un cuneo salino (ossia una risalita di acqua dal mare lungo il letto del fiume) che è arrivato a spingersi per la prima volta fino a 40 km nell’entroterra, causando danni incalcolabili e rendendo meno coltivabili alcuni terreni.

Ho detto che il 2022 è stato un anno nero per la nostra agricoltura, ma è sufficiente una ricerca web per trovare articoli che lanciavano lo stesso tipo di allarme già nel 2021 e nel 2020. E allora diventa chiaro che parlare di “anno nero” ha sempre meno significato, perché presuppone un paragone con una normalità sempre più lontana.

Molti climatologi e meteorologi vedono in fenomeni come questi il segnale che la stazionarietà, ossia l’idea che i sistemi naturali fluttuino all’interno di un intervallo fisso di variabilità, sia ormai finita. In quest’ottica, né le siccità prolungate, né le alluvioni di questi ultimi anni sono da considerarsi come eventi eccezionali e isolati.

Già nel 2008,  l’idrologo Paul Milly aveva pubblicato su Science un articolo intitolato Stationarity is dead: “La stazionarietà è morta perché il cambiamento climatico causato dall’essere umano sta alterando i valori medi ed estremi delle precipitazioni, dell’evotraspirazione e dei tassi di ruscellamento dei fiumi” si legge nell’articolo “Il riscaldamento aumenta l’umidità atmosferica e incide sui processi di trasporto dell’acqua. Questo porta a un aumento delle precipitazioni e, con ogni probabilità, del rischio di alluvioni. L’aumento del livello degli oceani comporta un maggiore rischio di contaminazione delle riserve di acqua potabile. […] Inoltre, il riscaldamento antropogenico sembra guidare un’espansione della zona subtropicale secca verso i poli, riducendo così il ruscellamento in alcune regioni.”

Insomma, la crisi climatica non sta soltanto cambiando i pattern di precipitazione e aumentando l’insorgenza di eventi estremi come tormente, siccità, ondate di caldo e incendi, sta anche rendendo molto più difficile prevederli. E questo non è un problema soltanto per l’agricoltura, ma per tantissimi aspetti della nostra vita su questo pianeta.

Un mondo sempre meno prevedibile

Negli ultimi decenni, le previsioni meteorologiche hanno fatto passi da gigante: grazie all’utilizzo di computer sempre più potenti, di modelli sempre più sofisticati per calcolare i processi atmosferici e di misurazioni sempre più precise, oggi siamo in grado di ottenere previsioni meteo affidabili anche a dieci giorni di distanza. Di recente l’Organizzazione Meteorologica Mondiale ha calcolato che oggi questi modelli di previsione consentono di risparmiare ogni anno l’equivalente di 160 miliardi di dollari. Disporre di un sistema per prevedere con un buon anticipo perturbazioni potenzialmente disastrose diventerà via via più necessario, con l’aggravarsi della crisi climatica; purtroppo, però, tra le sue ricadute c’è a quanto pare una netta riduzione nelle nostre capacità di previsione.

Proprio perché il riscaldamento globale rende più intensi ed erratici i fenomeni meteorologici estremi, la nostra capacità di prevederne le dinamiche e le conseguenze è destinata a restringersi sempre di più. Il che è un problema, considerando che, come chiosava Paul Milly nel suo articolo  “La stazionarietà non può essere ripristinata. Anche con un’opera di mitigazione aggressiva il pianeta continuerà a riscaldarsi, considerando i tempi di persistenza della CO2 nell’atmosfera e l’inerzia termica della Terra”.

La scomparsa della stazionarietà comporta un ampio ventaglio di implicazioni, e sono molti i settori che verranno travolti da questa progressiva perdita di stabilità: gli insediamenti costieri, ad esempio, costruiti per affrontare un range ristretto di imprevisti, saranno più esposti a uragani e inondazioni; chi si trova a dover costruire ponti, dighe, argini o altre infrastrutture dovrà prepararsi a condizioni estreme un tempo impensabili; la distribuzione delle colture dovrà essere ripensata sulla base di una mappa climatica stravolta, e molto meno schematizzabile che in passato; per non parlare delle compagnie di assicurazioni, che si trovano nella situazione di dover basare le proprie analisi su un rischio sempre meno calcolabile.

Fino ad oggi ci siamo basati sul passato per prendere decisioni, organizzare e pianificare la nostra esistenza su questo pianeta; presto non potremo più farlo, e questo perché il passato non è più un riferimento stabile. A dirla tutta, lo è sempre di meno.

Questo significa che il mondo come lo conosciamo sta sparendo? Per certi versi sì. Significa che saremo sempre più alla mercé di un clima impazzito? Non necessariamente. Perché se è vero che i gas serra che abbiamo già immesso nell’atmosfera continueranno a riscaldare il pianeta almeno fino a 1,5 gradi, è anche vero che con una rapida e trasversale decarbonizzazione abbiamo buone possibilità di rimanere sotto la soglia dei 2 gradi; il che significa che abbiamo ancora la possibilità di mantenere una parte di quella stabilità sulla quale abbiamo costruito un’intera civiltà.

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Fabio Deotto è scrittore e giornalista. Laureato in biotecnologie, scrive articoli e approfondimenti per riviste nazionali e internazionali, concentrandosi in particolare sull’intersezione tra scienza e cultura. Ha pubblicato i romanzi Condominio R39 (Einaudi, 2014), Un attimo prima (Einaudi, 2017) e il saggio-reportage sul cambiamento climatico “L’altro mondo” (Bompiani, 2021).  Insegna scrittura creativa alla Scuola Holden di Torino. Vive e lavora a Milano.
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