COP30, intervista a Mercalli: “Il clima non aspetta, ora dobbiamo decidere se vogliamo agire o subire”

Nei prossimi 12 giorni l’umanità si gioca in Brasile una delle ultime possibilità di fermare la catastrofe climatica. A Belém, nel cuore della Foresta Amazzonica, si apre domani, 10 novembre, la COP30, la conferenza ONU sul clima. Il vertice cade nel decennale degli Accordi di Parigi, il patto con cui il mondo si era impegnato a mantenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi. Dieci anni dopo, quell’obiettivo appare ormai sfumato. Il 2023 e il 2024 sono stati gli anni più caldi mai registrati, e il 2025 – dicono i dati di Copernicus – sarà il terzo. Intanto, mentre i dati confermano ciò che la scienza prevede da mezzo secolo, la politica sembra aver smarrito la direzione: guerre, crisi energetiche e ritorno dei nazionalismi hanno rallentato, se non invertito, la transizione ecologica.
La COP30, che dovrebbe rappresentare un nuovo punto di svolta, parte invece segnata da assenze pesanti: non ci saranno né Xi Jinping, né Putin. Né si vedrà Donald Trump, che intanto prepara la sua controffensiva fossile smantellando gli incentivi alle rinnovabili. In questo scenario di stallo geopolitico, l’Europa rischia di restare isolata, e l’Italia – come spiega Luca Mercalli a Fanpage.it – arriva all’appuntamento senza una strategia, divisa tra proclami sulla "neutralità tecnologica", colpevolizzazione delle politiche ambientali da parte di Giorgia Meloni e scelte industriali incapaci di guardare al futuro.
Il clima, però, non attende i tempi della politica e segue leggi fisiche. Secondo Mercalli, i prossimi dieci anni sono "l’ultima finestra utile" per cambiare rotta. Superato quel limite, l’aumento delle temperature diventerà irreversibile, con conseguenze devastanti: ondate di calore, uragani, mari più alti di un metro, zone inabitabili.

Professor Mercalli, quest’anno la COP30 si tiene in Brasile, ma coincide anche con un anniversario simbolico: i dieci anni dagli Accordi di Parigi sul clima. Le chiedo subito: qual è il bilancio di questo decennio?
Direi che fino al 2020 abbiamo visto qualche progresso, seppur lento. I primi cinque anni dopo Parigi sono stati caratterizzati da passi avanti concreti, in particolare in Europa con il Green Deal, che rappresentava un progetto politico d’avanguardia. Poi però sono arrivati i problemi. Prima la pandemia di Covid-19, che ha giustamente spostato l’attenzione sull'emergenza sanitaria per due anni, 2020 e 2021. Ma il vero colpo di grazia è arrivato con la guerra in Ucraina, poi con quella in Medio Oriente, e infine con il ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca. Oggi siamo in una fase di arretramento. Se nei primi anni si procedeva lentamente in avanti, ora si sta tornando indietro. Nel frattempo, però, il clima è andato avanti per conto suo: il riscaldamento globale continua, esattamente come previsto dai modelli climatici elaborati negli ultimi cinquant’anni.
Qualche settimana fa il segretario generale dell’ONU, António Guterres, ha dichiarato che l’obiettivo fissato dagli Accordi di Parigi di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi centigradi è ormai sfumato. Condivide questa valutazione? E cosa comporta superare quella soglia?
Sì, è sfumato. Ed è importante ricordare perché quella soglia era cruciale. Superare il grado e mezzo significa entrare in un territorio climatico sconosciuto alla nostra civiltà. Parliamo della storia dell’Homo sapiens negli ultimi diecimila anni, l’Olocene: un periodo di relativa stabilità termica, con variazioni mai superiori a un grado. Oggi siamo già oltre quel limite e le proiezioni per i prossimi cinquant’anni indicano un aumento medio tra i due e i due gradi e mezzo entro fine secolo.
E che succede con 2-2,5 gradi in più?
Con due gradi e mezzo di riscaldamento, affrontiamo rischi seri: ondate di calore che renderanno alcune aree del pianeta inabitabili – penso al Golfo Persico o a parti dell’India – e una frequenza crescente di eventi climatici estremi, dalle alluvioni alle tempeste violente, con danni enormi a vite umane, infrastrutture e agricoltura. Poi c’è l’innalzamento del livello dei mari: con un aumento della temperatura a +2,5 gradi significa oltre un metro entro il 2100 e fino a tre metri nel secolo successivo. Parliamo di un impatto diretto sui porti, sulle coste, su città come Venezia, che purtroppo è già da considerarsi perduta nel lungo periodo, ma anche su intere aree come il delta del Po o le spiagge dell’Adriatico, solo per restare al contesto italiano.

Copernicus ha diffuso nuovi dati sulla temperatura: il 2025 sarà il terzo anno più caldo mai registrato, dopo il 2024 e il 2023.
Sì, e questo conferma che la traiettoria non si è interrotta. Ogni anno aggiunge un tassello alla tendenza del riscaldamento globale. È la realtà, non un’opinione. E finché non ridurremo concretamente le emissioni, continueremo a battere record su record. Non possiamo più dire che non sapevamo: adesso si tratta solo di decidere se vogliamo agire o subire.
Venendo alla COP30, lei ha citato il ritorno di Trump come fattore di destabilizzazione. In che senso?
Trump rappresenta un serio elemento di rischio, perché è un negazionista climatico dichiarato. Sta smantellando i sussidi alle energie rinnovabili e, al contrario, li sta reintroducendo per miniere di carbone e per l’industria petrolifera. È un ritorno a un passato fossile, a una visione arcaica dello sviluppo economico. Ma soprattutto, questa inversione americana indebolisce l’interesse globale per la questione climatica: il tema perde centralità, e i Paesi più esitanti trovano una giustificazione per rallentare.
A Belém mancheranno sia Trump che Xi Jinping, e naturalmente anche Putin. Che effetto avrà questa assenza di grandi leader?
Non lo so, davvero. Io sono un climatologo, non un analista politico. Posso fare previsioni sull’atmosfera, non sugli umori degli esseri umani, che sono infinitamente più complessi e instabili. Ma certo, senza i grandi attori geopolitici, diventa molto più difficile costruire accordi vincolanti.

Veniamo all’Italia. Nel suo ultimo discorso all’assemblea generale ONU Giorgia Meloni ha dichiarato che l’ecologismo ha quasi distrutto il settore automobilistico in Europa, depauperato la conoscenza e impoverito milioni di persone. Cosa ne pensa?
Con il governo attuale assistiamo a un atteggiamento reazionario: invece di fare autocritica sulle proprie scelte industriali, si tende a dare la colpa all’ecologismo. Quando la Presidente del Consiglio dice che "l’ambientalismo ha distrutto il settore automobilistico", io dico che la sua è una comoda scusa.
L’ecologismo non ha distrutto niente: il problema è che la gente non ha soldi per comprare auto nuove, punto. E l’industria europea dell’auto ha commesso errori strategici gravissimi. Sapeva da anni che si sarebbe dovuti passare all’elettrico, ma ha scelto di concentrarsi sui segmenti di lusso, lasciando scoperto il mercato popolare. Così la Cina si è presa quel segmento, producendo le auto economiche che noi non abbiamo voluto fare.
Lei l’ha chiamata la "sindrome della Panda elettrica".
Esatto. Tutti volevamo una Panda elettrica, ma nessuno l’ha progettata. L’industria ha preferito puntare sui SUV da 80mila euro, un mercato redditizio ma limitato. E ora ci si lamenta perché i cinesi dominano il settore delle piccole auto elettriche. È un paradosso: non c’è nessuna costrizione che vieti di comprare auto termiche – il divieto europeo scatterebbe solo dal 2035 – eppure il mercato è in crisi. Perché? Perché è saturo: in Italia ci sono circa 40 milioni di auto, praticamente una per ogni persona e mezza. Non c’è più spazio fisico, né economico. E i salari sono troppo bassi perché le persone possano acquistare delle auto nuove.
Piuttosto, bisognava approfittare della transizione per sviluppare altri settori, come le energie rinnovabili. Ma anche lì siamo rimasti indietro. E dire che un Paese povero di risorse fossili come l’Italia avrebbe solo da guadagnarci: per noi puntare sul petrolio significa spendere miliardi di euro. Se invece investissimo davvero nel fotovoltaico, potremmo ricaricare le auto con l’energia prodotta sui nostri tetti.
Meloni parla spesso di "neutralità tecnologica". Lei non sembra d’accordo.
No, perché la neutralità tecnologica è una fesseria. Basta guardare i numeri: solo l’auto elettrica garantisce un rendimento energetico nettamente superiore. L’idea di mantenere i motori termici con i biocarburanti non sta in piedi, né sul piano fisico né su quello economico. I biocombustibili di "bio" hanno solo il nome: per produrli servono terra, pesticidi, fertilizzanti, e la resa energetica è bassissima. Gli unici realmente sostenibili sono quelli derivati da scarti di lavorazione, ma la quantità disponibile è irrisoria.
Sì, possiamo far andare qualche ambulanza con l’olio esausto delle patatine fritte, ma non quaranta milioni di automobili. Se provassimo a farlo, dovremmo disboscare le foreste tropicali per coltivare palme da olio, con effetti disastrosi sul clima e sulla biodiversità. Ecco perché l’auto elettrica non è una scelta ideologica: è semplicemente l’unica che funziona dal punto di vista termodinamico.
Quando si parla di ambientalismo "ideologico", in realtà il problema è l’assenza di numeri. È ideologico dire "bio è meglio" senza verificare il rendimento reale. Se la signora Meloni vuole sostenere i biocarburanti, deve mostrare dei dati, non usare slogan. Altrimenti è solo greenwashing.

Tornando al quadro globale, abbiamo iniziato con un bilancio dei passati 10 anni: ma come dovrebbero essere, secondo lei, i prossimi 10 anni?
Sono gli anni decisivi, quelli che Lula – non a caso il padrone di casa della COP30 – ha definito "l’ultima finestra utile". È un paragone calzante con la medicina: c’è una fase in cui puoi ancora prevenire la malattia, ma se la trascuri, diventa incurabile. Noi siamo quasi alla fine della fase di prevenzione. Se entro questo decennio non si inverte davvero la curva delle emissioni, non si potrà più evitare un riscaldamento di 2,5 o 3 gradi. E allora i danni saranno irreversibili per motivi fisici, non politici. Potremo solo adattarci, con costi enormi e perdite inevitabili e gravissime. Ricordiamolo: il clima segue le sue leggi fisiche, non le mode politiche del momento, né gli slogan senza senso di alcuni leader.