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A 30 anni dal massacro di Sabra e Chatila, Roma proibisce la mostra commemorativa

Trent’anni fa, in territorio libanese, si compì uno dei più efferati genocidi della storia: il massacro di Sabra e Chatila. Qui trovarono la morte circa tremilacinquecento palestinesi. La memoria del massacro viene continuamente oscurata, tanto che, a Roma, il sindaco Alemanno vieta lo svolgersi di una mostra dedicata.
A cura di Anna Coluccino
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La scena nel campo di Chatila, quando gli osservatori stranieri vi entrarono il sabato mattina, era come un incubo. In un giardino, i corpi di due donne giacevano su delle macerie dalle quali spuntava la testa di un bambino. Accanto ad esse giaceva il corpo senza testa di un bambino. Oltre l'angolo, in un'altra strada, due ragazze, forse di 10 o 12 anni, giacevano sul dorso, con la testa forata e le gambe lanciate lontano. Pochi metri più avanti, otto uomini erano stati mitragliati contro una casa. Ogni viuzza sporca attraverso gli edifici vuoti – dove i palestinesi avevano vissuto dalla fuga dalla Palestina alla creazione dello Stato di Israele nel 1948 – raccontava la propria storia di orrori. In una di esse sedici uomini erano sovrapposti uno sull'altro, mummificati in posizioni contorte e grottesche.

La storia del massacro – L'ingiustizia passata

Così scriveva Loren Jankins sul Washington Post del 20 settembre 1982. Erano passati pochi giorni dalla fine del massacro di circa tremilacinquecento profughi palestinesi – non più di ottocento per le fonti israeliane – nei campi di Sabra e Chatila (Beirut) ad opera delle milizie libanesi cristiano-falangiste di Elie Hobeika, con il consenso nonché il permesso di Israele. Il massacro durò trenta ore e più e – come scrisse David Lamb sul Los Angeles Time: "Gli Israeliani, che stazionavano a meno di 100 metri di distanza, non avevano risposto al crepitìo costante degli spari né alla vista dei camion carichi di corpi che venivano portati via dai campi". Il genocidio – così definito dalle Nazioni Unite – avvenne all'interno di un territorio controllato direttamente e unicamente dall'esercito israeliano, un territorio il cui assedio era cominciato mesi prima e che era stato oggetto di estenuanti trattative. Al termine dei colloqui, il Primo Ministro israeliano affermò che il suo esercito non sarebbe mai entrato a Beirut e che tanto meno avrebbe attaccato i campi profughi palestinesi in cui non si rilevavano presenze di guerriglieri; affermò – inoltre – di aver ottenuto l'assicurazione da parte dei falangisti sul rispetto dei confini dei campi e dichiarò infine che gli USA si sarebbero fatti carico del compito di vigilare sul rispetto degli accordi. Secondo le dichiarazioni ufficiali, l'unico interesse dei governi libanese e israeliano era quello di "accompagnare all'uscita" le forze dell'OLP (Organizzazione per la Liberazione della Palestina) presenti in Libano senza nuocere ai palestinesi rifugiatisi pacificamente a Sabra e Chatila. Ma Arafat, all'epoca leader dell'OLP e comandante dell'ALP (Armata per la Liberazione della Palestina) non si fidò delle rassicurazioni di Israele e, in cambio della pacifica fuoriuscita dei 15.000 guerriglieri palestinesi dal Libano, chiese che le forze internazionali si preoccupassero di vigilare sulla situazione e – in particolar modo – sulla sicurezza dei campi profughi. In accordo a tale richiesta, nell'agosto dell'1982 arrivano a Beirut contingenti francesi, italiani e statunitensi. I guerriglieri palestinesi cominciarono a lasciare il paese.

Appena terminate le procedure di "evacuazione", Israele infrange gli accordi e – con il suo esercito – accerchia il campo profughi. Le forze internazionali chiamate a vigilare sul rispetto dei patti non muovono un dito. La comunità internazionale tace. I falangisti libanesi si accampano intorno al perimetro dei campi e i contingenti stranieri pensano bene di lasciare il paese. Il 10 settembre non c'è più nemmeno l'ombra dei contingenti internazionali e la situazione non può che precipitare. Ariel Sharon accusa l'OLP di continuare a nascondere in Libano circa duemila guerriglieri, l'OLP rifiuta con decisione l'accusa e persino il presidente del governo libanese Gemayel si rifiuta di dare la caccia ai presunti guerriglieri, anche in virtù del miglioramento dei rapporti diplomatici con la Siria. Sorprendentemente, però, sembrano essere proprio il servizi segreti siriani i colpevoli dell'assassinio dello stesso Gemayel, avvenuto il 14 settembre. Assassinio che – di fatto – rappresenta l'ultimo anello della catena di eventi che scatenano il massacro. In seguito all'uccisione, infatti, gli Israeliani invadono Beirut cercando di giustificarsi agli occhi della comunità internazionale affermando di voler "proteggere i profughi palestinesi" da possibili ripercussioni falangiste (ripercussione vagamente "anti-mussulmane" giacché i responsabili dell'uccisione di Gemayel erano siriani e non palestinesi). Peccato che appena pochi giorno dopo il massacro sia proprio Sharon a dichiarare che "l'attacco aveva lo scopo di distruggere l'infrastruttura stabilita in Libano dai terroristi".

Il 16 settembre, alle sei del pomeriggio e in perfetto accordo con l'esercito israeliano, le milizie cristiano-falangiste invadono i campi profughi palestinesi per compiere un lento e inesorabile massacro che culminerà soltanto due giorni dopo. Donne, uomini, bambini… Cittadini palestinesi che – in seguito all'occupazione israeliana – erano stati costretti alla fuga dal proprio paese e si erano rifugiati in Libano in cerca di un po' di pace vengono trucidati senza alcuna pietà. Le immagini di quel genocidio sono agghiaccianti e nulla hanno da invidiare alle più cruente immagini della violenza nazista perpetrata nei campi di concentramento tedeschi, polacchi, austriaci. Il massacro viene ufficialmente condannato dalle Nazioni Unite, condanna che parla apertamente di genocidio ma che reste in gran parte "formale", specie per quando riguarda le responsabilità israeliane. Di fatto molti dei responsabili, tra cui Ariel Sharon, non sono mai stati perseguiti.

La negazione della storia – L'ingiustizia presente

Io sono stato nel Libano. Ho visitato i cimiteri di Chatila e di Sabra. È una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quel massacro orrendo. Il responsabile di quel massacro orrendo è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. È un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando della società.

Sandro Pertini, Presidente della Repubblica
31 dicembre 1983

Ed è con questa citazione che si apre il comunicato stampa con cui l'International Solidarity Moviment, organizzazione di cui – tra gli altri – faceva parte Vittorio Arrigoni,  annuncia il sopraggiunto divieto che il sindaco di Roma, Gianni Alemanno, ha imposto a quanti avevano deciso di organizzare la mostra "Notte molto nera – Sabra e Chatila, una memoria scomoda". La mostra avrebbe dovuto essere ospitata dalla Casa della memoria in Via San Francesco di Sales a Trastevere e avrebbe dovuto essere inaugurata il 30 maggio. Per ragioni che non è dato sapere, Alemanno ha deciso di vietare la mostra, trasformando – di fatto – la presunta Casa della memoria di Trastevere nella casa della censura, dell'oblio. Certo, la memoria di quel massacro, di quel genocidio è un ricordo difficile da digerire, ed è tanto più difficile quanto più la giunta comunale capitolina intesse rapporti via via più stretti con la comunità ebraica, decidendo di conferire la cittadinanza onoraria al caporale Shalit, a lungo l’unico prigioniero israeliano in mano palestinese, e dimenticando le migliaia di prigionieri palestinesi – tra cui moltissimi bambini di dodici, tredici anni; alcuni dei quali in sciopero della fame da oltre settanta giorni.

I due pesi e le due misure che il sindaco della capitale ha deciso di adottare nei confronti della questione israelo-palestinese suonano tanto più offensivi e insopportabili quanto più si avvicina la data di commemorazione del trentennale del genocidio perpetrato da falangi fasciste maronite sotto la supervisione diretta dell’esercito israeliano e del suo comandante, il ministro della difesa Ariel Sharon. Ogni anno, il 27 gennaio, l'intero universo-mondo celebra (giustamente) la giornata della memoria per ricordare le vittime dell'orrore nazista. Ma quella giornata acquista significato solo se il suo ricordo diventa strumento per evitare che la storia si ripeta e non se diventa "pretesto" perché le vittime di un tempo possano agire – impunemente – da carnefici. Il genocidio di Sabra e Shatila (e – in generale – il genocidio palestinese tutt'ora in corso a Gaza) non è un genocidio di serie B, così come non lo è quello del milione e mezzo di armeni che persero la vita nel 1915; così come non lo è quello dei sette milioni di ucraini lasciti morire nel 1932; così come non lo è quello dei quasi due milioni di cambogiani trucidati nel 1975; così come non lo è quello del milione di ruandesi del 1994 o quello dei centomila bosniaci del 1995. Le Case della memoria non ospitano ricordi selezionati, non censurano storie scomode, non dovrebbero operare una cernita tra ciò che si deve e non si deve ricordare, non ospitano soltanto quel che è politicamente conveniente. Gli oltre tremila morti della strage di Sabra e Chatila e le quotidiane morti di cui il governo israeliano si macchia da decenni hanno – quanto meno – diritto di cittadinanza, diritto d'esistenza. E i palestinesi hanno – come minimo – diritto alla denuncia, al ricordo.

"E la Casa della memoria storica si trasformerà nella Casa dell’oblio, del negazionismo, della disinformazione e della manipolazione della memoria". [dal Comunicato stampa dell'ISM]

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