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Terrore Turchia, Erdogan dà la colpa al Pkk. Ecco perché non c’è da crederci

La complessa situazione turca nell’analisi di Federico De Renzi.
A cura di Redazione
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Domenica 13 marzo un ennesimo attentato è stato compiuto a Piazza Kızılay, il cuore pulsante del centro di Ankara, rivendicato poi dai Falchi per la Libertà del Kurdistan, o Tak (Teyrêbazên Azadiya Kurdistan, o in Turco Kürdistan Özgürlük Şahinleri), costola apparentemente separatasi dal Pkk.. Il gruppo ha dichiarato sul suo sito che l'azione è stata compiuta in risposta alle azioni militari nel sud-est del paese. Un'azione "fredda" rivolta contro i civili, che ha causato 37 morti e 125 feriti. Come l’attentato del 10 ottobre 2015, avvenuto alla Stazione centrale, sempre ad Ankara, che aveva ucciso 102 persone e ferite altre 400, seguito da quello del 12 gennaio sotto all’Obelisco di Teodosio, davanti alla celebre Moschea Blu (Sultanahmet Camii) di Istanbul (attribuito all’ISIS dallo stesso Primo Ministro Ahmet Davutoğlu) dove una bomba aveva ucciso 13 persone e ferite 14, per lo più turisti stranieri. E infine da quello del 17 febbraio scorso sempre ad Ankara, dove, nei pressi del Ministero della Difesa, è stata fatta esplodere una camionetta militare, causando 28 morti e 60 feriti. Anche di quell’attentato, nel centro vero e proprio dello Stato, venne additato come responsabile dal Primo Ministro Ahmet Davutoğlu prima lo Ypg siriano (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione del Popolo), salvo poi essere rivendicato dai Tak. Questi dichiararono che la loro azione era stata compiuta in risposta alle stragi di Diyarbakır, che nel giugno 2015 costarono la vita a 4 persone che partecipavano ad una manifestazione filocurda, e di Suruç (Şanlıurfa), che nell'agosto successivo ha fatto 33 vittime e oltre 100 feriti.

Di questo clima d’odio e violenza il capo del partito d’opposizione Hdp (Halkların Demokratik Partisi, Partito Democratico dei Popoli), Salahattin Demirtaş ha da subito accusato il presidente Erdoğan e le sue politiche di odio. Secondo il Ministro degli Interni Efkan Ala una dei due kamikaze che si sono fatti esplodere con un’autobomba, è l’ex studentessa universitaria Seher Çağla Demir, della Balıkesir Üniversitesi, che si sarebbe unita al Pkk nel 2013, secondo quanto scrive il quotidiano Sözcü.

Ma in Turchia si sta assistendo a quella che è solo l’ultima fase della rinnovata radicalizzazione del conflitto con i curdi del Pkk (Partîya Karkerên Kurdîstan, Partito dei Lavoratori del Kurdistan), e gli attentati che da qualche anno scuotono la Turchia sembrano giustificare un sempre maggiore uso del pugno di ferro da parte dello Stato a guida Akp (Adalet ve Kalkınma Partisi, Partito Giustiza e Sviluppo), e del suo Presidente Recep Tayyip Erdoğan, tanto all’interno del Paese quanto nei teatri di guerra in Siria e in Iraq. Negli ultimi sei mesi infatti, in seguito alla fine del cessate il fuoco unilaterale dichiarato dal Pkk lo scorso luglio, in diverse province del paese è stato dichiarato il coprifuoco, e dispiegate quindi forze regolari per portare a termine azioni militari antiterrorismo. A dire del governo infatti, l’aumento delle azioni terroristiche del Pkk sarebbero legate alle proteste e concertate con le opposizioni, incarnate dallo Hdp, insieme con lo Ypg-G (Yekîneyên Parastina Gel, Unità di protezione del Popolo), principale nemico dello Stato islamico, a dire del presidente non è diverso dal Pkk, di cui sarebbe un ramo  e così i responsabili delle manifestazioni contro la politica governativa di contrasto indiretto alla resistenza curda a Kobanê sarebbero fiancheggiatori del terrorismo che insanguina la Turchia. Lo stesso responsabile dell’attentato del 10 ottobre 2015, Saleh Nejar, sarebbe stato un membro dell’Ypg, entrato in Turchia come rifugiato, sebbene lo Ypg abbia negato le accuse.

Il coprifuoco è stato dunque esteso in seguito all’attentato di domenica, anche alle città poste sul  lunghissimo confine con la Siria, l’Iraq e l’Iran (fino ai Monti Qandil) dei distretti di Mardin (Nusaybin), Hakkâri (Yüksekova), e İdil (Şırnak), oltre che alla stessa Sur (Diyarbakır) e a Cizre (Şırnak) sul confine siriano. Quest’ultima città è stata, insieme a Silopi (Şırnak) il principale luogo di scontro tra forze governative e militanti del Pkk tra dicembre e gennaio, ma in realtà iniziati già da luglio e proseguite a İdil fino a febbraio e hanno visto la distruzione degli abitanti e la fuga di migliaia di profughi interni. Il rinnovo del coprifuoco è stato attuato in concerto con una nuova azione militare, per il momento limitata a missioni aeree, con l’impiego di caccia, rivolta contro le postazioni del Pkk proprio sui Monti Qandil (Gara).

Dinamiche e prospettive dal “fronte” curdo

È dunque improbabile che sia il Pkk il vero responsabile, specie se un gruppo fuori controllo, apparentemente senza sostegno politico del Kongra-Gel o delle varie anime della galassia socio-politica curda, persegua azioni dimostrative in autonomia, vista la forte natura verticistica del Pkk e delle sue diramazioni. Gli stessi Tak si sono dichiarati, sin dalla loro apparizione nel gennaio 2016, slegati si dal Kongra-Gel (nome del Pkk dalla sua ristrutturazione politica nel 2003) che dalle Hpg (Forze di Difesa popolari, Hêzên Parastina Gel) , e che perseguono una loro guerra alla Turchia.

Questo per diversi motivi costanti per tutto il periodo di attività belliche del Pkk.

  1. L’assunto secondo il quale se bombardi i civili, otterrai consensi e voti, non funziona nella pratica Quindi se il PKK compie un attentato dinamitardo in un raduno pubblico, dove sono presenti prevalentemente curdi, l’Hdp otterrà più voti. È un’argomentazione che non regge su più livelli. Questo è il terzo attentato dinamitardo (stesso modus operandi, kamikaze con obiettivi civili in un luogo affollato) negli ultimi cinque mesi, con conseguente diminuzione del consenso all’Hdp. I precedenti due attentati sono stati collegati allo Ypg e a all’ISIS ma si sa chi erano i kamikaze, dove erano stati reclutati, quando avevano attraversato il confine con la Siria, ecc.
  2.  Il PKK e l’Hdp sono ideologicamente e metodologicamente molto diversi ed entrambi sono ora concorrenti per la leadership dei curdi, in conseguenza della diversa visione di quella che dovrebbe  essere una realtà politica curda in Turchia, ovvero se un’entità autonoma o parte integrante della vita politica del Paese.
  3. Il PKK non evita mai assumersi le responsabilità diretta, delegandola a terzi, di un atto terroristico, in quanto azione militare pianificata nel contesto di un’ampia strategia, finalizzata alla creazione del panico, e conseguentemente alla creazione di condizioni favorevoli per ottenere concessioni dall’entità politica nemica, tali da proseguire la Guerra rivoluzionaria su un piano principalmente politico.
  4. Per proseguire la Guerra rivoluzionaria, secondo la prassi seguita anche dal Pkk, bisogna, una volta creato il consenso delle popolazioni civili presenti nelle aree interessate all’attuazione della rivoluzione (nello specifico le zone curde della Turchia), passare all’azione militare diretta, ossia attacco a obbiettivi militari sensibili (basi, installazioni, caserme, centrali o commissariati di polizia). Tuttavia, dopo essere stato praticamente battuto in Turchia, in seguito una seria di campagne mirate proprio nel sudest dell’Anatolia (Seconda insurrezione, 2004-2012),  come si spiega questa capacità di recupero, maturata fino ad una vera rinascita, del movimento?
  5. Il Pkk ha direttamente beneficiato della frammentazione delle entità statali irachena e siriana, e degli spazi lasciati vuoti dall’assenza dello Stato già durante la Seconda insurrezione (2004-2012), e ottenuto maggiori consensi in Anatolia a partire dal 2012 e poi dopo le rivolte curde del 2014 contro il blocco militare turco agli aiuti di uomini e mezzi del Ypg-G che volevano raggiungere Kobanê  assediata dalle forze dell’ISIS e che causò il riversamento di 20.000 profughi oltreconfine. E in seguito con l’approvazione di leggi restrittive in tutto il paese e particolarmente nelle zone curde, dando alla polizia poteri straordinari.
  6. Dalla sua nuova base tra i Monti Qandil, nel Kurdistan iracheno, già usati come zona di rifugio durante la Seconda insurrezione, e da allora divenuti parte di un rifugio più  sicuro, ha sviluppato la più ampia Unione delle Comunità del Kurdistan (KCK, Koma Civakên Kurdistan). Questa include propaggini in Siria (il Pyd), in Iran (Partito della libera vita in Kurdistan, PJAK, Partiya Jiyana Azad a Kurdistanê), e Iraq (Partito della soluzione democratica per il Kurdistan, PCDK, Partî Çareserî Dîmukratî Kurdistan) insieme al suo braccio armato, le Hpg.
  7. Le vittorie sul campo di battaglia sono state alimentate da gravi errori di calcolo politico del presidente Erdoğan, su tutti l’aver lasciato che Kobanê venisse assediata dalle forze dell’ISIS e i suoi tentativi di contrastare il PKK attraverso il Governo regionale del Kurdistan del presidente Massoud Barzani e i suoi Peshmerga già dal 2011.
  8. Il successo elettorale di giugno dello Hdp e il fallimento "processo di pace" e dell’“apertura curda” hanno aumentato le aspettative del Pkk per la realizzazione di una soluzione politica, stile Comunità Anarchica di Röjava in Siria, che, come minimo, includa una qualche forma di “autonomia democratica.” Inoltre, quasi in convergenza con l’Akp, il Pkk beneficerebbe di un indebolimento dello Hdp, proprio per i motivi politici di cui sopra.
  9. Di conseguenza, il Pkk attualmente gode di grande sostegno nella società curda, specie nelle province al confine con la Siria, anche se per la maggior parte dei curdi, sunniti tradizionalisti e fortemente tribali, il Pkk rimane un gruppo terroristico comunista e ateo. Se si dovesse votare oggi nei quattro stati in cui vivono i curdi, Abdullah Öcalan e non Barzani verrebbe eletto come leader. Parte di questa popolarità è legata al tentativo di livellare le differenze tra i vari gruppi tribali curdi su basi egalitarie.
  10. Infine, qualora il responsabile fosse realmente il Pkk, i Servizi turchi, o MİT (Millî İstihbarat Teşkilatı, Organizzazione Nazionale d’Intelligence) che, dopo l’estensione dei sui poteri investigativi nel 2014 ha un controllo molto serrato su qualsiasi attività dei gruppi e dei soggetti eversivi, e su tutte le notizie “virali” sul web, avrebbe potuto distrarsi volutamente, come avvenuto negli attentati dell’ottobre 2015 lasciando poi trapelare l’identità dei responsabili quasi immediatamente, come appunto nel caso degli attentati di ottobre e febbraio (cosa che è puntualmente avvenuta). Inoltre la stessa Ambasciata degli Stati Uniti ad Ankara il giorno 11 aveva avvisato il governo turco di possibili attentati nel centro di Ankara (Bahçelievler).

Politica estera è Politica interna

Il Pkk rimane per la Turchia il vero nemico, interno ed esterno, molto più dello Stato Islamico come ripetuto dallo stesso presidente Erdoğan anche durante la sua visita in Italia lo scorso giugno e lo sta dimostrando ormai da quasi tre anni in Siria.

L’instabilità interna della Turchia è dunque specchio, e conseguenza, della situazione regionale, e internazionale, oltreché della sua stessa storia come stato nazione. Quella che Alberto Negri su Il Sole 24ore chiama “questione nazionale non risolta” relativa al conflitto con i curdi è parte di una situazione in cui la  guerra, più o meno civile, in Iraq e Siria, e il peso degli interessi di Russia e Usa (tramite la Nato) nella regione, nonché le aspirazioni egemoniche degli altri paesi della regione, come Iran e Arabia Saudita (e Israele) sono solo mosse di una partita più grande, giocata su scala mondiale. Accusare il Pkk (e i suoi fiancheggiatori veri o presunti) di essere l’unica causa di destabilizzazione interna, attraverso la polarizzazione e l’incitamento alla violenza dei “fratelli curdi”, e sostenere che sia responsabile della destabilizzazione in Siria è un modo per giustificare comportamenti poco limpidi sia dentro e fuori dal Paese. Il fatto, poi, che Erdoğan  abbia dichiarato più volte che il Pkk sia più pericoloso dell’ISIS , mettendolo sullo stesso piano di quest’ultimo (fino ad sostenere un legame tra i due per gli attacchi dell’ottobre 2015) rappresenta perfettamente gli interessi turchi e, indirettamente, quelli dell’Alleanza atlantica di cui la Turchia è un alleato fondamentale, specie nel suo ruolo (momentaneamente sospeso negli anni ’90, ma mai finito), di mastino della NATO contro la Russia. In quest’ottica vanno infatti visti l’abbattimento del Su-24 da parte di un F-16 turco e del pilota superstite dello stesso da parte dei jihadisti dello Stato islamico  sui cieli della Siria, abbattimento di uno degli elicotteri di soccorso nel territorio controllato dalle milizie del Fronte/Esercito Turcomanno (Suriye Türkmen Ordusu/Cephesi) in guerra contro lo Stato siriano (appoggiati, non solo verbalmente da Ankara) avvenuti entrambi il 24 novembre 2015.

Quinte colonne e Quarto Potere

Il governo vorrebbe quindi dare la colpa al PKK, specie alla luce dei poco chiari rapporti che Ankara  e lo stesso MİT ha avuto (o ha) con l’ISIS, su tutti esemplificati nel passaggio di armi e rifornimenti oltreconfine. Risulta quindi molto improbabile che il PKK sia dietro l’attentato, e le identità del kamikaze sono troppo facilmente riconducibili agli ambienti dell’opposizione “filo-Pkk”. Quello che sta succedendo in Turchia fa pensare dunque che sia in atto una “strategia della tensione” stile anni ’70, sostenuta da un’escalation di violenze sia verbali che fisiche verso tutti i rappresentanti dell’opposizione politica, sociale e culturale.. Questa radicalizzazione è il risultato di un lungo processo che non è cominciato quest’anno, ma va avanti da decenni, ancora prima del primo governo dell’Akp nel 2002. C’è una polarizzazione a tutto campo della società, palesatasi a partire dalle manifestazioni di Gezi park del 2013 e della quale gli attentati rappresentano solo la punta dell’iceberg. Il nemico Pkk, insomma, serve. Anche allo Hdp, e come nemico.

La questione curda, infatti e la minaccia, reale, del Pkk, non è l’unica ad essere indicata come fonte di destabilizzazione da parte di Ankara, ma appunto sono sistematicamente attaccate tutte le opposizioni, incarnate, nell’ottica del Presidente, da giornalisti, studenti, professori universitari – visti come ignoranti e traditori – e dagli “intellettuali”.

Questa opposizione “perversa” è rappresentata, politicamente, dallo Hdp che ha impedito a Erdoğan di raggiungere la maggioranza assoluta alle ultime elezioni amministrative e che ha da subito sostenuto le gravi responsabilità del Akp nel polarizzare la società e di usare le istituzioni, causando questo clima di terrore.

Lo stesso presidente ha più volte associato l’Hdp al Pkk, facendo intendere che il partito d’opposizione non è che un ramo politico del gruppo terroristico, e dunque corresponsabile degli attentati. Ma gli attacchi del presidente e della maggioranza si manifestano anche e soprattutto con l’offensiva nei confronti della stampa non allineata all’Akp e al presidente da ultimo l’assalto delle forze dell’ordine alla sede del quotidiano Zaman, (legato a Fethullah Gülen al suo Movimento Hizmet) ora eliminato nella sua vecchia forma dal Web (l’archivio e gli articoli precedenti l’assalto e la sì chiusura sono spariti) e rimodellato in termini filo-governativi, che segue gli attacchi alla sede al quotidiano Hürriyet (del Gruppo editoriale indipendente Doğan)  e gli attacchi, verbali e fisici, sfociati negli arresti di decine di giornalisti di testate indipendenti. Questa serie di attacchi sostenuti direttamente da affermazioni e discorsi pubblici dello stesso presidente  e attuati dalla magistratura, è sfociata poi nel l’accusa di fare propaganda ai terroristi, e conseguentemente nell’arresto dei giornalisti Can Dündar, direttore del quotidiano Cumhuriyet (sempre del gruppo Doğan), ed Erdem Gül, redattore capo dello stesso ad Ankara, arrestati con l’accusa di spionaggio dopo un inchiesta sul passaggio di armi e rifornimenti all’ISIS tra Turchia e Siria, attraverso camion dei Servizi nazionali, ad opera appunto del MİT. Lo stesso presidente si è speso pubblicamente per ottenere il massimo della pena. Dopo il loro recente rilascio, seguito a tre mesi di carcere.

Il Gran ricatto

Pensare in questo contesto che la Turchia possa essere la soluzione del problema europeo nella gestione dei migranti è quantomeno fuorviante. Da Bruxelles stanno cercando una soluzione in quello che in realtà è una parte del problema. La Turchia sta usando la carta dei migranti per consolidare la sua posizione nello scacchiere internazionale, lo dimostra il fatto che solo nel 2015 Ahmet Davutoğlu (allora Ministro degli Esteri) non ritenesse l’ingresso nell’Ue una questione prioritaria, ma un’opzione principale, per quanto significativa, mentre ora è una delle clausole del contratto sui migranti. I migranti, così come le vittime dell’attentato di domenica, sono uno strumento di pressione verso le politiche dell’Europa nel vicino Oriente e, all’interno del Paese, per preservare il consenso.

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