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La marcia che non farà del mondo un posto migliore

La marcia degli ipocriti o quella della fratellanza e della tolleranza? Qualunque sia la risposta, resta un timore: che il mondo, da domani, sarà un posto peggiore. Soprattutto se il vile attacco di Parigi diventerà il nuovo 11 settembre…
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La marcia degli ipocriti. O la Francia che si rialza e ci rende fieri di essere europei, occidentali. Ci ho pensato a lungo, passando da una considerazione all'altra, da un sentimento all'altro. Ma non mi avete convinto. Nessuna delle due idee mi ha convinto.

Certo, non ci sono dubbi sul fatto che la gran parte dei capi di Stato, politici e lacché non fosse degna della marcia cui ha preso parte. Non ci sono dubbi sul fatto che l'adesione in massa al #JesuisCharlie sia una delle cose più ridicole e velleitarie degli ultimi anni. Non ci sono dubbi sulla concretezza assoluta del fatto che la risposta all'attacco andrà esattamente nella direzione opposta a quella immaginata, sognata e "lottata" da quelli dell'Hebdo.

E allo stesso tempo è vero che chi ha partecipato alla marcia di oggi credeva, anzi voleva rispondere all'odio con la libertà, la fraternità e l'uguaglianza. E' vero che oggi la Francia si è caricata sulle spalle il peso dell'Europa, delle sue contraddizioni e delle sue paure. E' vero che lo spirito profondo della marcia è stato quello dell'unione, della condivisione, dell'amore come risposta al terrore.

Però. Non riesco a togliermi dalla testa alcuni però. Perché ecco, io ho una paura fottuta che questo evento diventi "una cesura", un "punto di non ritorno". Un nuovo 11 settembre, appunto. E non credo che abbiamo la consapevolezza di quale sia la posta in gioco. Perché sono sicuro che non costruiremo affatto un mondo più giusto e libero se passa la lettura dello scontro fra civiltà, dell'attacco ad un "modello di vita", dell'odio contro "un sistema di valori". Quanto successo nel passato, basta ad argomentare una tesi semplice: un sistema che si sente minacciato tende, sempre, a chiudersi a riccio, a diminuire gli spazi di libertà e partecipazione dei suoi stessi componenti. Certo, il discorso sarebbe lungo e complesso e mi riprometto di tornarci quando sarà passata l'ondata di empatia e di indignazione a comando.

E poi c'è il corteo, che annulla le distanze, appiattisce i contrasti e manda, sempre, un messaggio. Uno e uno solo. Per quanti sforzi abbiano fatto partecipanti ed organizzatori, questo è stato il corteo della risposta europea e occidentale. Una sorta di manifesto di un mondo, di una idea di mondo capace di garantire libertà, giustizia e democrazia. Della sola idea di mondo possibile qui, in Europa. Condivisibile o meno, questo importa poco, sinceramente (al netto delle parole di Hollande, uno dei pochi ad aver "tirato dentro" questioni falsamente risolte come l'integrazione, la tolleranza, il rispetto e il dialogo interreligioso).

E infine c'è una cosa che manca, che proprio non riesco ad evitare di tirare in ballo ogni volta che penso a quanto è successo e a quanto sta per succedere. La riflessione sul "perché", su come siamo arrivati a questo, più che sul modo in cui abbiamo reagito. E mi ricordo di tutte le volte che ci siamo ripetuti della bontà del modello francese di integrazione, del modo in cui l'Europa tiene in sé persone di origine, provenienza o religione diversa. E di tutte le volte che abbiamo sfuggito la vera questione, quella reddituale, quella della scalabilità delle nostre società, quella delle possibilità che "diamo" a chi, migranti di prima, seconda e terza generazione guarda caso, occupa la parte più bassa della scala sociale. Ecco, poi leggo Ambrosini e so che ha ragione:

Il fondamentalismo si nutre della discriminazione e dell’esclusione economica e sociale. I mussulmani in Europa non vivono in ghetti per loro scelta, ma perché non riescono a uscirne. E nei ghetti l'identità culturale e religiosa, l’unica risorsa accessibile a tutti, diventa facilmente un simbolo di opposizione a una società ostile ed escludente. In quei contesti la predicazione fondamentalista attecchisce più agevolmente

E so che ha ragione anche Zizek, quando ci spinge ad interrogarsi su cosa sia davvero la violenza (e su come un certo linguaggio sia funzionale al sistema), o quando deride la nostra pretesa di ricalibrare la bilancia dell'equità (ALERT: non si sta sostenendo in alcun modo che la violenza dei terroristi sia equiparabile ad altre forme di "schiavitù" e dipendenza, tipiche del nostro sistema valoriale; la questione è e resta complessa). E so che restano, anzi si amplificano, tutti i nodi irrisolti di questo sistema, compreso l'enorme carico di disuguaglianza e di giustizia sociale sacrificati affinché noi potessimo dirci liberi e tolleranti, affinché potessimo sentirci "migliori di…" e sbattere in faccia al mondo ciò che chiamiamo democrazia.

Insomma, non trovo davvero nulla per cui rallegrarmi oggi: certo, c'è l'empatia ed il senso di comunità di una nazione, forse di un popolo, ma il domani rischia di essere di gran lunga peggiore. Ecco, io alla marcia non sarei mai andato. Perché non avrei mai sopportato di diventare, magari un domani, strumento di repressione e censura. E non lo avrebbero sopportato nemmeno quelli dell'Hebdo.

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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