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La Federal Reserve non fa scherzi, per fortuna dell’Italia

Nessuna sorpresa negativa dalla Federal Reserve che lima gli acquisti di bond di altri 10 miliardi di dollari al mese ma ribadisce che il mercato del lavoro è meno solido di quanto sembri. Oltre a Wall Streeet a tirare il fiato è proprio l’Italia…
A cura di Luca Spoldi
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La Federal Reserve non cade nella trappola in cui è caduta gran parte della stampa, italiana e non, complici i dati particolarmente volatili negli ultimi due trimestri del Prodotto interno lordo statunitense: al termine della riunione del Fomc (il comitato che prende le decisioni di politica monetaria) una nota della banca centrale americana spiega che l’indebolimento nel mercato del lavoro persiste anche ora che l’economia è in ripresa (secondo le stime “avanzate” del Bureau of Economic Analysis, il Pil statunitense in termini reali è cresciuto ad un tasso annualizzato del 4,0% nel secondo trimestre del 2014, e non del 3,6% come prevedevano gli analisti, peraltro dopo essere calato del 2,1% annualizzato nel primo trimestre a causa dei postumi di un inverno più rigido delle previsioni).  Senza generare alcun allarme la Riserva Federale ha continuato nel suo “tapering” (il programma di graduale riduzione degli acquisti di bond sul mercato) riducendo di altri 10 miliardi, da 35 a 25 miliardi al mese, il limite agli acquisti stessi, che nel frattempo hanno fatto salire l’attivo del bilancio della Fed al record di 4.410 miliardi dollari).

Perché questa notizia è importante (e confortante) per l’Italia? Perché la Fed sta già iniziando a discutere al suo interno quando alzare i tassi, cosa che non fa dal 2006, dato che i dati ufficiali sulla disoccupazione e sull’inflazione (per statuto entrambi obiettivi che la Fed deve perseguire, mantenendoli rispettivamente entro la soglia del 6% e del 2% a medio termine) mostrano che ormai l’obiettivo dell’istituto guidato da Janet Yellen è a portata di mano e si può smettere di “drogare” i mercati e cercare di evitare che si creino altre bolle speculative dovute all’eccesso di liquidità sul mercato. Negli Usa infatti solo lo scorso mese si sono creati altri 288 mila posti di lavoro non agricoli, mentre la disoccupazione è scesa al 6,1% e molti temono che nei prossimi mesi questo potrebbe tradursi in un incremento delle paghe orarie che se da una parte dovrebbe sostenere ulteriormente i consumi (già apparse in crescita del 2,5% annualizzato nel secondo trimestre, grazie ai maggiori acquisti di beni durevoli come le automobili degli ultimi cinque anni) dall’altra potrebbero portare l’inflazione ben oltre il 2% attorno a cui già si trova da un paio di mesi (anche se l’inflazione “coreè ancora attorno all’1,9% dando un minimo di margine di manovra alla Fed).

E siccome quando i tassi inizieranno ad aumentare, non solo a livello di mercato (i titoli di stato americani già oggi rendono il 2,51% sulla scadenza decennale ossia poco meno del 2,70% offerto dai Btp italiani di analoga scadenza) ma anche a livello ufficiale, i mercati stessi inizieranno a fare il conto alla rovescia per capire quando la Bank of Japan prima e la Bce poi cesseranno a loro volta di mantenere l’attuale impostazione ultra rilassata di politica monetaria che, se non altro, ha consentito al tratto a breve delle rispettive curve dei tassi di mantenersi attorno allo zero da oltre due anni, ecco che se entro i prossimi trimestri/semestri l’Italia non sarà riuscita a far ripartire la crescita le cose potrebbero complicarsi e non poco. Insomma: l’italico (ma anche europeo) vizio di procrastinare continuamente ogni intervento di politica economica, ogni riforma a favore di una maggiore competitività del “sistema Italia” (che si sarebbe potuta e dovuta fare in tempo di crescita mentre resta difficile fare in tempo di stagnazione se non più di recessione), ogni riforma del sistema del credito e più in generale ogni rivoluzione culturale, intendendosi con tale termine la capacità di porsi obiettivi al passo coi tempi, adottando le migliori pratiche internazionali e cercando di programmare il nostro futuro senza limitarsi a rimpiangere il nostro passato, potrebbe costarci come ho già scritto una parzialissima ripresa cui seguirebbe una nuova fase recessiva.

Qual è il costo complessivo di tutto ciò? Difficile misurarlo in termini puramente economici, di punti di Pil persi o di sofferenze bancarie (come pure si è fatto finora evidenziando già così gli evidenti limiti e i pesanti rischi che corre l’economia italiana sia per quanto riguarda il settore pubblico sia privato). Il vero costo è un costo umano: chi è e resta da anni disoccupato vede progressivamente svanire la speranza di trovare una nuova occupazione. Chi attende di entrare nel mondo del lavoro rischia di essere troppo vecchio quando potrà farlo. Chi aveva cinque, dieci, quindici anni fa certe possibilità oggi (e ancor più tra cinque o dieci anni) non le ha più. Stiamo bruciando una o forse due generazioni in attesa di vedere che succede. E’ questo il rischio più grande che corrono buona parte degli italiani (anche se non tutti, evidentemente, o non staremmo ancora così pacificamente a parlarne ai tavolini dei bar) ed è per questo che a tirare un sospiro di sollievo, stasera, oltre che Wall Street dovrebbe essere anche l'Italia.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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