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Artemisia Gentileschi a Roma: per la prima volta, le due versioni di Giuditta a confronto

La mostra a Palazzo Braschi non smette di stupire: per la prima volta, le due versioni del capolavoro “Giuditta che decapita Oloferne” vengono esposte insieme. Grazie al prestito degli Uffizi e di Capodimonte.
A cura di Federica D'Alfonso
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Artemisia Gentileschi, "Giuditta che decapita Oloferne" (1620), Galleria degli Uffizi
Artemisia Gentileschi, "Giuditta che decapita Oloferne" (1620), Galleria degli Uffizi

Fino al 7 maggio 2017 il Museo di Palazzo Braschi di Roma ospita una delle mostre più affascinanti di questa stagione: “Artemisia Gentileschi e il suo tempo”. L'esposizione ha aperto al pubblico lo scorso 30 novembre, riscuotendo già un'enorme successo, ma in questi giorni un'importante novità arricchisce il viaggio nella straordinaria produzione artistica dell'erede romana di Caravaggio: le due versioni di “Giuditta che decapita Oloferne” saranno esposte per la prima volta una accanto all'altra, per un confronto storico e artistico imperdibile.

L'esposizione è stata arricchita da importanti prestiti dai principali musei del mondo come il Metropolitan di New York e il la Galleria degli Uffizi, e in questo modo capolavori come “Ester e Assuero” e “Autoritratto come suonatrice di liuto” sono riuniti tutti in un'unica esposizione, alcuni per la prima volta in Italia, insieme a numerose opere di pittori contemporanei come Simon Vouet e Giuseppe Ribera.

Ma il pezzo centrale dell'esposizione resta la magnifica tela ispirata alla storia della Giuditta: un'opera fondamentale per comprendere il linguaggio pittorico e la biografia di quest'artista. Infatti, Artemisia Gentileschi dipinse per ben due volte la violenta scena dell'uccisione del generale Oloferne: una scena che nasconde tormenti, violenze subite ma anche un'inarrivabile forza emotiva ed artistica.

L'arte e la violenza subita

Artemisia Gentileschi si è ispirata, per narrare in immagini le sue storie, al mito e alle Sacre Scritture: Danae, Susanna, Giaele ed Ester rivivono nei suoi quadri con un pathos e una carica emotiva degni dei più grandi capolavori di Caravaggio. I soggetti non sono casuali: quasi sempre sono donne protagoniste di storie sanguinose, di violenza o di vendetta. Dietro queste scene dipinte si cela in realtà la travagliata storia personale dell'artista: lo stupro subito all'età di diciassette anni da parte di Agostino Tassi, suo maestro di disegno.

La vicenda dell'eroina ebraica Giuditta è quella sulla quale Artemisia sembra aver scelto di riversare tutto l'odio, la rabbia e la frustrazione per il torto subito, tanto da tornare a dipingerla più volte. Una prima versione, risalente al 1612 (appena un anno dopo la violenza), conservata oggi presso il Museo di Capodimonte, e un'altra, tarda, del 1620, custodita dagli Uffizi. Per la prima volta, questi due quadri, in verità molto simili ma anche molto diversi, sono esposti uno accanto all'altro per un confronto affascinante.

Due opere a confronto

Artemisia Gentileschi, "Giuditta che decapita Oloferne" (1612), Museo di Capodimonte, Napoli
Artemisia Gentileschi, "Giuditta che decapita Oloferne" (1612), Museo di Capodimonte, Napoli

Avvicinatasi alla colonna del letto che era dalla parte del capo di Oloferne, ne staccò la scimitarra di lui; poi, accostatasi al letto, afferrò la testa di lui per la chioma e disse: "Dammi forza, Signore Dio d'Israele, in questo momento". E con tutta la forza di cui era capace lo colpì due volte al collo e gli staccò la testa.

La bella Giuditta è una delle eroine più tenaci e violente dipinte da Artemisia: dopo averlo fatto ubriacare, taglia brutalmente la testa al generale Oloferne, salvando così il popolo d'Israele dalla schiavitù. L'episodio, narrato dalle Sacre Scritture, ossessiona la Gentileschi, che lo dipinge per due volte: diversi sono i colori, diverse le dimensioni, ma certo è che l'intensità con la quale il quadro racconta la tragedia dei suoi personaggi è fuori dal comune. La prima versione del 1612 venne dipinta dall'artista proprio a ridosso della violenza e del processo che lo seguì: un processo che porterà la ragazza all'infamia e al disonore.

Ma la pittura si trasforma in un mezzo attraverso il quale raccontare la propria esperienza, elevandola ad arte: ne è testimone la seconda versione conservata agli Uffizi, molto più grande, più accesa, e sicuramente ispirata, a differenza della precedente, dallo stile di Caravaggio. Dopo anni Artemisia sceglie di tornare su quell'episodio, che molto probabilmente era rimasto vivido e fresco nella sua mente proprio come poi accade sulla tela.

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