Un Paese vuole mettere un freno ai nomi per bambini troppo stravaganti: “Sono impronunciabili”

Nel Giappone che spesso affascina per il suo equilibrio tra tradizione e modernità, anche la scelta del nome di un figlio può diventare terreno di confronto tra creatività individuale e rigore normativo. Con una recente modifica alla legge sul registro di famiglia, il governo giapponese ha deciso di intervenire su una tendenza cresciuta negli ultimi decenni: quella dei nomi kirakira – letteralmente "brillanti" o "scintillanti" – caratterizzati da letture insolite o fantasiose dei caratteri kanji, uno dei tre alfabeti che compongono la lingua scritta nel Paese del Sol Levante. L’obiettivo? Mettere ordine e chiarezza in un sistema che, per quanto affascinante, rischiava di creare confusione nei contesti scolastici, sanitari e amministrativi.
Nomi e significati: l'equivoco dei kanji
In Giappone, scegliere un nome non è un atto puramente creativo, anche perché la lingua nippponica è molto complessa e ricca di sfumature. I nomi propri sono formati da kanji, caratteri di origine cinese che hanno un significato preciso e spesso evocano qualità che i genitori sperano di trasmettere ai propri figli. Ad esempio, il nome Yuma, può essere evocare la dimensione del "tempo" o del "sogno". Una semantica poetica, che riflette l’importanza attribuita alla simbologia linguistica.
Tuttavia, accanto al significato, i kanji presentano una particolarità: ogni carattere può avere più pronunce. Questo ha aperto la strada, a partire dagli anni ’90, a interpretazioni sempre più audaci, dove i genitori hanno iniziato a dare ai kanji letture completamente arbitrarie, spesso ispirate dalla cultura pop o da influenze occidentali.

L’era dei nomi kirakira
È così che ha preso piede la moda dei kirakira neemu, i nomi "scintillanti" che combinano kanji tradizionali con pronunce del tutto inusuali. Un caso emblematico spiegato in un articolo del Post del 2023 è il carattere 海, che significa "mare" e si legge di norma “kai” o “umi”, ma che è stato reinterpretato da alcuni genitori come "Marin" per evocare atmosfere più internazionali.
Questi nomi, però, si sono rivelati difficili da leggere anche per i madrelingua, generando equivoci e disagi, in particolare nei contesti istituzionali. Da qui la crescente pressione per una regolamentazione, sostenuta da una buona parte della popolazione.
Le nuove regole del governo
Con la revisione della legge sul koseki, il registro familiare giapponese, il governo ha quindi deciso di introdotto un importante cambiamento: d’ora in poi i genitori dovranno comunicare non solo i kanji scelti per il nome del figlio, ma anche la loro pronuncia, che dovrà rientrare nei limiti delle letture ritenute convenzionali. In caso contrario, sarà necessario fornire una giustificazione scritta e, se richiesto, proporre una pronuncia alternativa. Secondo le autorità, il nuovo criterio fonetico mira a semplificare i processi burocratici e a favorire la digitalizzazione, ma è anche un tentativo esplicito di contenere l’uso di nomi troppo eccentrici. I funzionari hanno infatti spiegato che molti dei nomi kirakira sono, di fatto, impronunciabili o privi di senso per chi li legge per la prima volta, generando disagio soprattutto in ambito scolastico e sanitario.
Pur lasciando ai genitori ampia libertà tra i quasi 3.000 kanji approvati per legge, la nuova normativa rappresenta una svolta. Il Giappone interviene così su un terreno che tocca profondamente l’identità individuale e familiare, con una misura che – secondo molti esperti – non impedirà la creatività, ma stabilirà dei limiti ragionevoli a tutela dell’interesse collettivo.

Come ha spiegato un funzionario del Ministero della Giustizia, non si tratta di censurare la fantasia, ma di evitare che la libertà individuale diventi fonte di difficoltà pratiche per tutta la società. In un Paese che continua a cercare un equilibrio tra tradizione e innovazione, anche il modo di dare un nome a un bambino racconta molto dei cambiamenti in atto.
Tra creatività e conformismo
Il dibattito sui nomi "brillanti" tocca un tema molto più ampio: quello dell’equilibrio tra espressione individuale e pressione sociale. In una società come quella giapponese, dove il conformismo resta un valore profondamente radicato, molti genitori hanno cercato nei nomi kirakira un modo per affermare l’unicità del proprio figlio. È un modo per resistere a una società che tende a schiacciare l’individuo.
Eppure, i casi più estremi hanno sollevato polemiche. Il quotidiano britannico The Guardian ha recentemente ricordato l'esempio dell'ex pattinatrice di velocità olimpica Seiko Hashimoto, la quale finì bersaglio di forti critiche da parte della stampa e parte dell'opinione pubblica per aver chiamato i suoi figli i suoi figli "Torino" e "Girishia" (Grecia). Hashimoto però non è certo la sola ad aver optato per versioni piuttosto stravaganti. Negli anni le anagrafi giapponesi hanno registrato nomi come Naiki, ispirato al marchio di abbigliamento sportivo Nike, Pū, in omaggio al personaggio Disney Winnie-the-Pooh, Akuma ("diavolo"), e ovviamente Pikachu, il Pokémon diventato ormai un simbolo del Giappone nel mondo.