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Se dici queste frasi tossiche ai tuoi figli, forse dovresti smetterla: l’esperta spiega perché

Minacce, ordini e frasi svalutanti compromettono la relazione tra genitori e figli. Una parental coach americana ha recentemente illustrato le parole da evitare quando si dialoga con i bambini, suggerendo alcune alternative per adottare un linguaggio che favorisca maggiormente la cooperazione: “Non si tratta di cedere, ma di guidare con empatia, ascolto e rispetto per l’autonomia dei bambini”.
A cura di Niccolò De Rosa
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Capita a tutti i genitori di sentirsi esausti davanti a un figlio che non ascolta. Le urla, i richiami, le minacce sembrano a volte l’unica via per ottenere collaborazione. Ma cosa succederebbe se il problema non fossero i bambini, ma le parole che usiamo? Reem Raouda, imprenditrice e parental coach, ha analizzato oltre 200 relazioni genitore-figlio, giungendo a una conclusione: i genitori che non si scontrano continuamente con la disobbedienza non sono più autoritari, ma sanno usare un linguaggio che promuove la cooperazione, senza minacce né premi. Lo ha spiegato in un articolo pubblicato sulla CNBC, indicando alcune delle frasi più tossiche che sabotano l’ascolto e la relazione genitore figli, spiegando anche come sostituirle con parole più utili e costruttive.

Oltre il "perché lo dico io": spiegare rafforza l’autorità

Una delle frasi più comuni, e al tempo stesso più dannose, è "Perché lo dico io". Secondo Raouda, questa espressione non solo chiude la comunicazione, ma insegna ai figli l’obbedienza cieca, senza stimolare un processo comprensione o sviluppare l'autonomia necessaria. Meglio dire: "So che non ti piace questa decisione. Te la spiego, poi andiamo avanti". In questo modo, il genitore rimane saldo nel suo ruolo, ma con rispetto, senza far prevalere il suo ego: spiega, senza negoziare, e dimostra di prendere sul serio i sentimenti del figlio. Il risultato? Un bambino più disposto ad ascoltare.

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Le tipologie di frasi tossiche da evitare

  • Minacciare non serve, la chiave è responsabilizzare: un altro classico è: “Se non ascolti, perdi la TV (o un altro privilegio)”. Questa formula, osserva Raouda, mette il bambino sulla difensiva e innesca comportamenti oppositivi. La proposta alternativa è: "Quando sarai pronto a fare questa cosa (ossia il comportamento desiderato), potremo fare ciò che ti piace". Non si toglie la regola, ma si offre al bambino la possibilità di scegliere quando rispettarla. Così si riduce lo scontro e si rafforza il senso di responsabilità.
  • Mai sminuire le emozioni: "Basta piangere, non è niente" è una frase che molti adulti pronunciano in automatico. Ma invalida i sentimenti del bambino, facendolo sentire solo e incompreso. Raouda suggerisce di dire invece qualcosa come "Vedo che sei molto turbato. Raccontami cosa sta succedendo". L’accoglienza e la validazione delle emozioni, anche intense, crea connessione e favorisce la calma. E un bambino che si sente ascoltato sarà più incline a collaborare.
  • Ripetere non aiuta, meglio cercare il motivo del blocco: "Quante volte devo ripetertelo?" è la frase della frustrazione. Ma parte dal presupposto che il bambino sia svogliato o testardo. In realtà, dietro la mancata risposta può esserci confusione, disconnessione o una difficoltà non espressa. Per questo Raouda propone un cambio di prospettiva: "Te l’ho chiesto più volte. Aiutami a capire cosa lo rende difficile per te". In questo modo, si stimola la riflessione e si affronta insieme il problema, senza colpevolizzare.
  • Non giudicare, ma accompagnare: l’importanza di credere nei figli: dire "Questa cosa non si fa" può sembrare educativo, ma spesso genera vergogna e sfiducia. La parental coach invita invece a riconoscere il momento difficile e rilanciare: "C’è qualcosa che ti sta allontanando dal tuo lato migliore. Parliamone". Così il bambino si sente sostenuto, non giudicato, e viene incoraggiato a riflettere sul proprio comportamento con fiducia e consapevolezza.
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Il vero segreto: meno controllo, più connessione

Alla base di questo approccio non c’è una formula magica, ma un cambio di prospettiva. Non si tratta di controllare il comportamento dei figli, ma di creare un contesto in cui la collaborazione sia naturale. Secondo Raouda, "i bambini collaborano quando si sentono rispettati, emotivamente sicuri e coinvolti nel processo". Le parole che usiamo sono solo la punta dell’iceberg: ciò che conta davvero è lo sguardo con cui li accompagniamo nella crescita. Meno punizioni e più ascolto non significano cedere, ma guidare con empatia e fermezza. Così si costruisce una relazione solida, capace di resistere alle sfide dell’infanzia e dell’adolescenza.

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