Perché definirsi “migliori amici” dei figli potrebbe essere un errore madornale: i consigli delle esperte

Sempre più spesso capita di sentire genitori definire i propri figli, bambini o adulti, come i loro "migliori amici". Che sia una piccola vanteria per sottolineare il rapporto speciale con i proprio ragazzi o una sincera convinzione ricambiata anche dai diretti interessati, di norma, questa frase nasce da affetto genuino, ma trasformare il proprio figlio in un "amico" può comportare rischi concreti per la relazione e per lo sviluppo emotivo dei bambini. Per quanto non ci sia nulla di male nel voler passare tempo con i propri figli, quando li si definisce come "amici" o "migliori amici", il rischio concreto è quello di equivocare le corrette dinamiche genitore-figlio che invece dovrebbero essere alla base di ogni progetto educativo.
Genitori e amici, ruoli incompatibili
Gli esperti concordano su un punto fondamentale: i bambini non devono mai essere trattati come “migliori amici”. La confusione dei ruoli può nascere con buone intenzioni, ma nasconde problemi più profondi. Carrie Howard, social worker e coach per l’ansia, ha recentemente sottolineato sull'Huffington Post come i bambini abbiano bisogno che i genitori siano adulti sicuri e guida, non pari con cui fare confidenze. "Quando queste linee si sfumano, diventa difficile stabilire regole e educare efficacemente". Il rischio dietro l'angolo è quello della cosiddetta "parentificazione", ovvero il ribaltamento dei ruoli in cui il bambino assume responsabilità emotive e pratiche che non gli competono. "Un bambino non può essere il migliore amico del genitore senza sentire una pressione implicita a soddisfare bisogni che non sono suoi", ha aggiunto Howard.

Anche Kyndal Coote, psicoterapeuta, ha evidenziato i limiti dello sviluppo: "I bambini non sono strutturati emotivamente per essere il principale supporto di un genitore. Il loro cervello non è pronto per questo compito”. Quando il bambino diventa il principale sostegno emotivo del genitore, può sviluppare significative insicurezze e difficoltà nelle relazioni future, compreso un costante senso di colpa che farà capolino ogni volta che il figlio penserà di non essere stato abbastanza premuroso nei confronti del genitore.
Adolescenza e confini emotivi
La parentificazione e la confusione di ruoli non scompaiono poi con l'adolescenza. Meredith Van Ness, psicoterapeuta anch'essa intervenuta sull'HuffPost, spiega: "Quando ci si affida troppo ai figli durante l’infanzia o l'adolescenza, la relazione tende a rimanere avvolta e intrecciata anche in età adulta". Questo fenomeno, noto come "enmeshment" (dal prefisso inglese "en" combinato con il verbo "to mash", traducibile più o meno come "irretire","mettere nella rete" ), porta a rapporti disfunzionali in cui mancano autonomia e confini chiari. Durante l’adolescenza, il rischio è pertanto che il figlio si senta responsabile dei sentimenti del genitore, riducendo la propria capacità di prendere decisioni autonome o di coltivare amicizie e relazioni romantiche. "I bambini e gli adolescenti devono concentrarsi sul proprio sviluppo, non sulla gestione delle emozioni dei genitori", conferma Coote.

Quando il figlio è adulto: sfumature e limiti
Con i figli adulti, la questione cambia, ma non si risolve completamente. Van Ness ha precisato che trattare un figlio adulto come migliore amico non è così dannoso come farlo con un bambino, perché gli adulti hanno strumenti emotivi per affrontare le questioni degli adulti. "Tuttavia – ha specificato – non è consigliabile considerarlo un’amicizia tra pari". Anche la componente economica può creare squilibri: "Se il genitore paga cene, regali o sostiene finanziariamente il figlio adulto, questa dinamica di potere non è comune tra amici".
I segnali che il confine è stato oltrepassato
Come capire quando la relazione con il figlio è diventata troppo simile a un’amicizia? Per Van Nessh ci sono alcuni segnali chiari: se il bambino diventa il principale supporto emotivo del genitore, se è costretto a scegliere tra genitori separati o a farsi carico di conflitti matrimoniali, significa che il confine è stato superato. Condividere dettagli personali, come problemi coniugali o difficoltà relazionali con amici colleghi di lavoro, è ad esempio un comportamento poco consigliabile, perché rende i figli "interlocutori alla pari", quando invece è bene che i ruoli rimangano asimmetrici: è il genitore a dover fornire aiuto, consigli e supporto. Non il contrario. Anche la gelosia verso le amicizie o le relazioni del figlio indica chiaramente un legame sbilanciato.

Ripristinare i confini: la responsabilità del genitore
Se un genitore si accorge di aver superato il limite e di aver fatto del figlio un "migliore amico", c'è spazio per correggere la dinamica. "Molto spesso nasce dall’amore, ma non aver ricevuto modelli sani di relazione non giustifica il danno. È responsabilità del genitore sviluppare queste competenze da adulto", ha sottolineato Coote. Il primo passo dovrebbe essere quello di costruire – o rafforzare – una rete di supporto tra pari: amici, partner, altri familiari. "Bisogna imparare a gestire le proprie emozioni e a stare con emozioni difficili senza appoggiarsi ai figli", ha aggiunto Coote. "Si può avere un rapporto caldo e affettuoso senza confondere le parti. Non siete uguali ai vostri figli, avete esperienza e responsabilità in più".
La missione principale del genitore è deve essere insomma quello aiutare il figlio a diventare autonomo e sicuro. "L'obiettivo è crescere bambini e adolescenti capaci di vivere in autonomia, non mantenerli vicini per soddisfare bisogni emotivi propri" sintetizza Van Ness, evidenziando come la presenza di confini chiari permettono di godere dei vantaggi della relazione genitore-figlio senza sovraccaricarli di responsabilità adulte: "Dobbiamo sapere che i genitori staranno bene senza i figli e che i figli staranno bene senza dover essere coinvolti in ogni aspetto della nostra vita".