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Perché alcuni bebè piangono più di altri? Lo studio: “Non dipende dai genitori, ma dal DNA”

Un nuovo studio sui gemelli mostra che la predisposizione al pianto nei neonati è in gran parte genetica. Secondo gli esperti, questa scoperta può rassicurare i genitori che si sentono inadeguati o colpevoli per il pianto continuo: ogni bambino è diverso, e ciò che conta davvero è rispondere in modo consapevole e amorevole.
A cura di Niccolò De Rosa
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Chiunque abbia avuto un neonato in casa conosce quella sensazione di impotenza davanti a un pianto inconsolabile. Passeggiate notturne, ninne nanne infinite, rumori bianchi sparati a tutto volume: i genitori sono pronti a tentarle tutte pur di calmare il loro bambino. Ma e se una parte del problema non fosse nelle strategie dei genitori, bensì scritta nei geni del bambino? Un nuovo studio svedese suggerisce che la predisposizione al pianto potrebbe avere basi genetiche molto più forti di quanto si pensasse.

Un nuovo sguardo sul pianto dei neonati

Secondo una ricerca pubblicata su JCPP Advances, il modo in cui un neonato piange — in particolare quanto a lungo e quanto facilmente si calma — è in buona parte determinato dai geni. Lo studio ha preso in esame quasi 1.000 coppie di gemelli, sia monozigoti (i gemelli identici) che eterozigoti, monitorati a 2 e 5 mesi di età.

I gemelli identici condividono praticamente il 100 per cento del loro DNA, mentre i gemelli fraterni ne condividono circa il per cento. Questo approccio permette di distinguere l’influenza dell’ambiente familiare (uguale per entrambi) da quella genetica. Analizzando le differenze tra i due tipi di gemelli, i ricercatori hanno stimato che a 2 mesi la genetica spiega circa il 50 per cento del tempo di pianto e della facilità con cui i bambini si calmano. A 5 mesi, questa quota sale fino al 70 per cento. In altre parole, pur restando importante l'ambiente e la cura dei genitori, la predisposizione al pianto sembra in larga misura scritta nel corredo genetico del neonato.

pianto dei bambini

Nessuna colpa per i genitori

Questi risultati offrono un messaggio importante alle mamme e ai papà che si sentono frustrati o inadeguati. Il pediatra Joel Gator Warsh, intervenuto sul sito di genitorialità Parents, ha sottolineato come la ricerca confermi ciò che molti colleghi già sospettavano: alcuni bambini piangono più di altri non per errori dei genitori, ma perché "sono semplicemente fatti così".

Secondo Warsh, sapere che il pianto può avere una forte componente genetica dovrebbe alleviare il senso di colpa e la tendenza al confronto con altre famiglie che spesso fa sentire mamme e papà ingiustamente inadeguati. "Ogni bambino è programmato in modo diverso, e questa consapevolezza può aiutarci a sviluppare più pazienza e compassione, sia verso di loro sia verso noi stessi", ha spiegato. Tuttavia, come fatto notare dalla pediatra Tiffany Fischman, molti genitori possono sentirsi scoraggiati se percepiscono di non avere controllo sul pianto del proprio figlio. Ed è comprensibile che questo generi ansia o frustrazione, soprattutto nei primi mesi di vita.

Il pianto si trasforma con la crescita

Anche se la genetica gioca un ruolo importante, le ragioni per cui un neonato piange evolvono poi con l’età. Nei primissimi mesi il pianto è prevalentemente riflesso, guidato dal sistema nervoso ancora immaturo. In questa fase, fame, dolore o disagio fisico sono le cause più comuni, e il pianto è la forma di comunicazione principale. Tra i 6 e i 9 mesi, però, le cose cambiano: il bambino diventa più consapevole e inizia a usare il pianto in modo più intenzionale. I piccoli imparano infatti che piangendo possono modificare il loro ambiente — ad esempio farsi prendere in braccio. È un primo esempio di apprendimento basato sulle reazioni dei genitori.

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In questa fase, fattori come temperamento, relazioni e contesto familiare iniziano a influire di più sul comportamento del bambino. E secondo Warsh, è importante che i genitori imparino a leggere i segnali del proprio figlio, adattando la risposta alle diverse età e necessità.

Rispondere con amore e intenzione

Un altro aspetto fondamentale è l’approccio dei genitori alla gestione del pianto. Warsh suggerisce che, man mano che i bambini crescono e passano da bisogni di sopravvivenza immediati a capacità di autoregolazione, possa essere appropriato lasciarli lamentare brevemente in alcuni contesti, come durante il cosiddetto "sleep training". Lo stesso esperto mette però in guardia dall’idea che esista un unico metodo valido per tutti: "Non sentitevi obbligati a usare il metodo del pianto controllato se non vi convince o vi mette in difficoltà. L’obiettivo deve essere sempre quello di rispondere con amore e intenzione, anche se questo significa fare scelte diverse da famiglia a famiglia".

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