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Il post di un papà ci ricorda quanto sia dura accudire i bambini piccoli: “Il burnout è reale”

Negli ultimi anni si è parlato molto di burnout genitoriale, ma quando i figli sono molto piccoli lo stress può diventare insostenibile. Un padre americano ha definito questa condizione “burnout da lattante”, descrivendo l’esaurimento di chi affronta crisi, pianti e bisogni continui dei bambini nella prima infanzia. Gli esperti rassicurano: sentirsi sfiancati dai continui pianti non significa essere cattivi genitori.
A cura di Niccolò De Rosa
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Negli ultimi anni si è parlato molto del burnout genitoriale, quella condizione di esaurimento fisico ed emotivo che colpisce madri e padri sommersi da ritmi frenetici, impegni lavorativi e aspettative sempre più alte. È una forma di esaurimento che molti sperimentano e che oggi viene riconosciuta come un fenomeno reale e diffuso. Quello che spesso si dimentica, però, è che quando i figli sono più piccoli questa forma di stress può acuirsi a dismisura. Anche loro, appena affacciati alla vita, devono imparare a gestire emozioni nuove, a comprendere regole e limiti, a convivere con un mondo che per loro è ancora tutto da decifrare. Questo può pertanto portare a reazioni spropositate e crisi di pianto che, alla lunga, finiscono per sfiancare anche il genitore più amorevole.

È da questa consapevolezza che un papà americano ha cominciato a utilizzare il termine "burnout da lattante" per descrivere il sovraccarico emotivo dei genitori che hanno a che fare con bambini nella primissima infanzia. Joshua Lindsey-Harrison, ha infatti recentemente condiviso una riflessione diventata virale su Threads. "Oggi ho scoperto che il burnout da lattante è una cosa reale. E onestamente non mi sorprende", ha scritto, condividendo la definizione di un fenomeno che è sempre più riconosciuto dagli esperti e dai genitori di tutto il mondo.

Perché crescere un bambino piccolo è così difficile

Secondo la psicologa e pedagogista infantile Sasha Hall, intervistata da Newsweek, il fenomeno è reale e sempre più diffuso. "Il periodo della prima infanzia,  quello tra i due e i quattro anni , è una fase di rapido sviluppo cerebrale", ha spiegato l'esperta.  I bambini iniziano solo allora a comprendere e gestire le proprie emozioni, ma la loro capacità di autoregolarsi è ancora minima perché l'amigdala – la parte del cervello deputata alla gestione delle emozioni – non è sufficientemente matura. Per questo i piccoli si affidano completamente agli adulti per imparare a calmarsi e a dare un senso a ciò che provano.

Il post condiviso su Threads da Joshua Lindsey–Harrison | Credits: Threads/@joshuatlindsey
Il post condiviso su Threads da Joshua Lindsey–Harrison | Credits: Threads/@joshuatlindsey

Anche eventi banali, come un piccolo cambio nella routine o il piatto preferito presentato con una variante insolita, possono scatenare crisi apparentemente inspiegabili, con pianti inconsolabili, grida e comportamenti dirompenti. E se per un adulto simili sfoghi tracolli emotivi rientrano tutto sommato nel computo di una certa ordinarietà (le giornatacce capitano a tutti), quando a viverli è un bambino piccolo le conseguenze ricadono su tutto l'ambiente familiare.

L'accumulo quotidiano che logora

A rendere frustrante e psicologicamente impattante questo tipo di episodi non è tanto la singola crisi a sfinire, ma la loro continua ripetizione. Hall, che è anche madre di due bambini piccoli, ha infatti ricordato come molti genitori si trovino a gestire contemporaneamente lavoro, casa, figli e la pressione sociale che porta a credere di dover sempre essere "perfetti". “Questo carico emotivo e pratico costante — sottolinea — può comprensibilmente portare a stress, esaurimento e svuotamento emotivo.”

Nei commenti al post di Lindsey-Harrison, numerosi genitori hanno confermato la difficoltà del periodo. "Come papà single, posso confermare: dai due ai quattro anni è stata durissima", ha scritto un utente. Un'altra madre ha raccontato la propria testimonianza su come i bimbi possano perdere il controllo per i motivi più assurdi: "Ieri mio figlio di tre anni è scoppiato a piangere perché ho alzato il riscaldamento anziché accendere un bel fuoco nel sedile posteriore della mia auto".

Non è cattiva genitorialità, è solo un periodo intenso

La buona notizia, ha tenuto a sottolineare la dottoressa Hall, è che il "burnout da lattante" non è un segno di incapacità o di cattiva genitorialità. “È un’esperienza comune e comprensibile”, afferma. Per affrontarla servono sostegno, realismo e gentilezza verso se stessi. Non tutti i genitori, ha aggiunto, possono contare su reti familiari o sociali solide.  Riconoscere la fatica come legittima è tuttavia un primo passo per affrontarla senza sensi di colpa. Il burnout genitoriale non riguarda carenze individuali, ha concluso Hall, ma l'intensità prolungata di questa fase dello sviluppo e la necessità di compassione sia verso i figli, che verso se stessi.

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