La società vuole che la donna rimanga vittima, l’esperta “Si può lavorare su strumenti che restituiscono la forza”

Alle donne viene insegnato fin da bambine a essere prudenti, a non esporsi, a misurare ogni gesto o parola che dicono in funzione del rischio. È un’educazione che attraversa le generazioni e che, invece di offrire strumenti per reagire, finisce per alimentare un copione di paura da tramandare. La società ha costruito per secoli un immaginario femminile subordinato, privo di autonomia. Oggi quelle radici riaffiorano nelle forme più sottili della violenza economica, psicologica e culturale, in un circolo vizioso che invita le donne a percepirsi come vittime e a muoversi nel mondo come tali. Con la dott.ssa Chiara Simonelli, psicoterapeuta e sessuologa alla Fondazione Sapienza di Roma, abbiamo esplorato come nasce questa dinamica e quali passi siano necessari per spezzare finalmente le catene che la alimentano.
Dottoressa quanto pesa ancora oggi il retaggio storico e religioso che per secoli ha subordinato le donne e le ha definite inferiori?
Pesa moltissimo, perché è un retaggio lunghissimo. Non si tratta soltanto di qualche secolo di maschilismo, ma di un’intera visione del mondo in cui la donna era considerata subordinata, non un essere umano per definizione. È evidente che questa rappresentazione ha lasciato un segno profondo nell'immaginario comune e anche nella visione che la donna ha di sé stessa. La cultura patriarcale è stata così radicata che ancora oggi continuiamo a portarne gli effetti nelle relazioni, nelle istituzioni e soprattutto nell’idea che la donna sia più fragile, più esposta, più vittima.
Le violenze economiche e psicologiche sono spesso invisibili ma devastanti. In che modo contribuiscono alla costruzione dell’identità della vittima?
Le violenze economiche e psicologiche sono gravissime perché tolgono autonomia: togliere autonomia significa togliere dignità. Oggi in Italia ci sono ancora donne che non hanno un conto corrente o che devono chiedere il permesso per spendere i soldi, ed è un dato che parla da sé. Anche le violenze psicologiche, quel continuo “tu non capisci niente”, “non vali”, “non conti”, sono gocce che scavano la roccia. Quando cresci in un ambiente del genere interiorizzi l’idea di non essere capace e di dover dipendere da qualcuno. Questa è già una forma di vittimizzazione profondissima.
L’educazione delle bambine è spesso un’educazione alla paura. Quanto incide questo sul modo in cui diventano adulte?
Incide moltissimo, perché una bambina che sente fin da piccola che deve stare attenta, non far tardi, non mettersi la minigonna, non prendere la metro di sera, impara che il mondo è pericoloso soprattutto per lei. E ha ragione a temerlo, perché le statistiche ci dicono che il rischio c’è. Ma questo continuo richiamo alla prudenza costruisce una mentalità che si porta avanti nell’adolescenza e poi nell’età adulta. E la paura, quando è costante, limita la vita. Le donne rischiano di rinunciare a esperienze e libertà che invece dovrebbero poter esercitare senza doversi giustificare.
Molte donne si affidano a strategie di autoprotezione: chiamate durante il rientro, app di sicurezza, numeri pubblici. Questi strumenti aiutano o rinforzano la paura?
Sono strumenti decisamente utili e in certi casi necessari. I numeri pubblici che accompagnano telefonicamente durante il tragitto notturno sono un’ottima iniziativa, come i City Angels a Milano o Nottambula a Bologna. Stare al telefono con un’amica mentre si torna a casa tardi può rassicurare e, in caso di emergenza, fare la differenza. Ma è chiaro che tutto questo nasce da un disequilibrio sociale, dal fatto che la donna vive in un rischio reale e concreto. Quindi sì, aiutano, ma ricordano anche che la minaccia esiste e che una donna, ancora oggi nel 2025, non è libera di tornare a casa da sola serenamente. L’obiettivo non dovrebbe essere che la donna viva protetta, ma che non debba proteggersi continuamente.
Come può una donna, pur mantenendo le attenzioni necessarie, uscire da questo stato di paura e recuperare un senso di forza?
L’equilibrio è delicato, perché non possiamo parlare di paranoie: il rischio c’è e purtroppo è concreto. Ma si può lavorare su strumenti che restituiscono la forza. Ci sono corsi di autodifesa che io consiglierei subito anche a una ragazza adolescente, quando ha energie da vendere: sapere come reagire, come immobilizzare un aggressore, dà un senso di competenza che ha un impatto psicologico enorme. E poi c’è il lavoro più profondo, quello psicoterapico, che permette di rivedere il proprio ruolo, la propria storia, e uscire da etichette interiorizzate. Sapere chi si è e da dove viene il proprio copione è fondamentale per riscriverlo.
Lei parla molto di autonomia economica e culturale. In che modo studio e indipendenza aiutano a rompere lo schema della vittima?
Lo studio è uno strumento potentissimo per una donna. La cultura ti permette di capire da dove arriva tutto questo: perché le donne erano pensate come subordinate, perché esiste ancora un gap salariale ignobile, perché certi comportamenti sono considerati “normali”. Più cose sai, meglio puoi reagire. Non è vero che gli ignoranti sono più felici. L’indipendenza economica, poi, è essenziale: non garantisce di non subire violenze, purtroppo, ma permette scelte diverse, ti rende meno ricattabile. È una base su cui costruire un’autonomia mentale che è la vera forza.
Perché la maternità è il luogo privilegiato del victim blaming?
Perché la colpevolizzazione delle donne è sport nazionale, e nella maternità trova il suo apice. Qualsiasi cosa capiti a un bambino viene immediatamente attribuita alla madre: non si è accorta di questo, non ha prevenuto quello, non è stata capace. E poi c’è tutto l’apparato familiare, i parenti, le amiche, che spesso riproducono consapevolmente o inconsapevolmente una cultura patriarcale molto rigida. Quei modelli interiorizzati diventano persecutori e minano ancora di più l’autostima.
Simone de Beauvoir scriveva che l’uguaglianza sarà raggiunta solo quando tutte le donne del mondo saranno davvero libere. Quanto siamo lontani da quel traguardo?
Siamo ancora lontani, purtroppo, perché parliamo di un cambiamento globale, che riguarda culture e contesti diversissimi. Ma l’analisi di de Beauvoir è perfetta: il grado di civiltà di una società si misura da come questa tratta le donne. L’emancipazione passa dallo studio, dal lavoro, dall’autonomia economica. Nessuno di questi elementi elimina completamente il rischio di essere vittima, come dimostrano storie dolorosissime di donne colte e indipendenti che sono state aggredite proprio per essere tali, come nel caso di Franca Rame. Ma questi strumenti possono diventare un'arma da impugnare, una forza interna che ci permette di non definire noi stesse a partire dalla violenza subita. Ed è questa la rivoluzione più profonda, quella che ogni donna dovrebbe auspicare.