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Marco Bellocchio: “Il prossimo film? Mi piacerebbe su Enzo Tortora, una riflessione su tv e giustizia”

Il cinema di Marco Bellocchio è giovane e dinamico. Rapito, il suo ultimo film, racconta la storia di un rapimento e di una famiglia, e poi dell’Italia e del Vaticano. Fanpage.it lo ha raggiunto per commentarne il successo, parlare di quello internazionale de Il traditore e di un potenziale progetto futuro: un film sulla vita di Enzo Tortora.
A cura di Gianmaria Tammaro
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Il cinema di Marco Bellocchio è giovane e dinamico. Sempre pronto a cambiare, a sperimentare, a cambiare linguaggio e approccio. Non c’è un argomento troppo grande o uno spunto troppo piccolo. Tutto può essere utile per raccontare e per raccontarsi. Per mostrare la faccia più intima dell’animo umano, o per mettere in risalto la nostra mostruosità. Siamo soli, e allo stesso tempo siamo costretti in una folla rumorosa e irrequieta. Divisa tra la Storia, con la maiuscola, e la storia, con la minuscola.

Rapito, il suo ultimo film, distribuito da 01 Distribution e scritto con Susanna Nicchiarelli, racconta la storia di un rapimento e di una famiglia, e poi dell’Italia e del Vaticano. Si muove sospeso tra due dimensioni: quella della fede imposta dall’alto e della fragilità di chi è innocente. È una rincorsa, un insieme di quadri e immagini bellissime. Non sentenzia: indica. Non impone: suggerisce. Gioca con i chiaroscuri e le ombre, e prova a tracciare una linea. Mai netta, mai definitiva. Ma visibile e chiara.

Quando ne parla, Bellocchio sembra illuminarsi. Passa da un argomento all’altro, e cita pezzi d’arte, libri e il lavoro che è stato fatto con la tecnica digitale. Spiega che bisogna essere pronti a improvvisare, ad affrontare ogni situazione. Poi si concentra sugli attori e sul piccolo protagonista, interpretato da Enea Sala. Trova un filo comune tra le sue opere, e piano piano, come solo i più bravi sanno fare, lo srotola dandogli una nuova forma. Passato, presente e futuro non esistono. O meglio: non sono così distanti. Convivono, sono nello stesso momento, e il cinema di Bellocchio li sa fotografare.

Nel suo studio, a Roma, ha diversi poster dei suoi film. Quello del Traditore, però, è in giapponese. Perché?

Per una curiosità, forse.

I poster giapponesi sono molto belli.

Non capisco nulla di quello che c’è scritto. Però ha un valore. Per la sua grafica e per il suo disegno. Alcuni dei miei film, nel corso degli anni, sono arrivati all’estero. In altri paesi. Probabilmente Il Traditore, con Favino e la storia di Buscetta, è riuscito ad arrivare un po’ ovunque.

Ha qualcosa di particolare questo poster?

Non so dirle per il significato, onestamente. È un simbolo, però. Mi permette di ricordarmi che una serie di film che ho diretto non si sono fermati all’Italia, ma sono stati visti altrove. Oltre le Alpi. So che in Brasile Il Traditore è stato accolto bene. Ma è capitato anche ad altri titoli. Il diavolo in corpo, a cui tengo molto, è stato classificato come pornografico negli Stati Uniti.

Riflette mai su questa cosa? Sull’avere un pubblico non italiano, pronto a seguire le sue storie?

È chiaro che i miei film nascono principalmente come soggetti italiani, pensati e scritti in italiano. So che hanno un’altra vita, che vengono venduti in altri paesi e su altri mercati. Il primo impatto e la prima attenzione, però, restano italiani. Non ho mai cercato di difenderli (ride, ndr).

In che senso?

Nel senso che quando qualcuno mi dice che qui i miei film non vanno bene non cito mai le vendite all’estero.

Ha ricominciato a dipingere?

Dipingere richiede tempo. E comporta una certa applicazione. I pochi quadri che ho fatto sono quadri a olio. Disegno, quello sì. Ma è sempre un’attiva utile ai miei film. È un divertimento, una distrazione. Una curiosità. Non lo uso per fare storyboard, no. Ci sono alcuni registi che lo fanno ed è utile. In Rapito l’abbiamo fatto per determinate scene, quando abbiamo utilizzato il digitale e serviva un’indicazione precisa per le inquadrature.

Conserva una certa spontaneità, il disegno.

Segue l’ispirazione, un movimento o un colore. Però è una cosa che rimane marginale – lo ripeto. La mia attenzione è quasi del tutto rivolta all’immagine cinematografica, in cui concorrono tutta una serie di altri aspetti che fanno parte della mia vita.

Ha detto che quando deve lavorare a un nuovo film parte sempre da un’immagine specifica. Da quale immagine è partito per Rapito?

Onestamente non lo so. Non mi ricordo. Ho avuto un altro approccio, credo. Uno più romanzesco. Ho letto di questa storia, l’ho cercata. Ed è proprio il romanzo, il romanzo cinematografico, che mi ha attirato. Quando uno parte da un’immagine, pensa a qualcosa di particolare. Una casa, un interno; un dettaglio. In questo film ogni cosa è stata costruita. Abbiamo provato a mettere tutto insieme, su una stessa linea. San Pietro, il Ghetto e Castel Sant’Angelo sono stati lavorati con la tecnica digitale.

Quindi è partito da altro.

Forse dal bambino, dal protagonista. Dal suo pianto. È stato quello che, a un certo punto, ha fatto la differenza. Per un po’, nella storia, resiste la speranza: il padre è pronto a scendere a compromessi pur di continuare ad avere con sé suo figlio. Quando però il bambino gli chiede: papà, mi taglieranno la testa?, c’è un vero e proprio strappo. Ed è lì che è iniziato il viaggio. È sempre così, al cinema.

Così come?

Pensi a tante situazioni e a dei tempi che sono insostenibili. Non solo dal punto di vista produttivo. Sono insostenibili come racconto. E quindi finisci per sceglierne solo alcuni. A selezionarli. Quando abbiamo visitato Bologna, per esempio, abbiamo scelto di far fare al protagonista un percorso attraverso i canali. In realtà, il suo viaggio fu in carrozza.

Perché ha preso questa decisione?

Perché vedere questa barca che seguiva la corrente mi affascinava. Per la scena della campagna, qualcuno mi ha suggerito una processione campestre. E io mi sono ricordato che proprio nella Galleria Ricci Oddi di Piacenza c’è un quadro di Michetti, piuttosto bello, che si chiama Il morticello, in cui viene rappresentato il funerale di un bambino.

Nel film ci sono diversi riferimenti che partono proprio dalla pittura.

Perché avevo bisogno di ricostruire quel mondo, quella realtà e quella vita domestica. È stato molto importante. Per esempio, l’illuminazione. Ti chiedi continuamente come fare per illuminare le scene perché, durante l’epoca del racconto, le case erano buie. Se le fai troppo buie, però, rischi di non vedere niente. E allora devi trovare un compromesso. In più, noi abbiamo dovuto ricreare la notte, perché lavorando con dei bambini non potevamo girare fino a tardi, ma solo di giorno. Sono tutte cose che si devono affrontare una per una.

Niccolò Ammaniti dice che a volte gli attori migliori sono i bambini. Lei è d’accordo?

I bambini non recitano. E in parte è un problema, in parte è una risorsa. C’è il rischio che comincino a imitare gli altri, soprattutto gli adulti. Spesso i bambini vengono doppiati o parlano in modo strano, come dei piccoli saccenti. In questo film, era importante creare qualcosa di nuovo; era importante avere un parlato normale, chiaro, coerente.

Lavorare con i bambini è più facile?

Enea Sala, che interpreta il protagonista, non era mai entrato in una chiesa prima di questo film. Con molta serietà, però, ha imparato. E ha imparato anche le preghiere ebraiche. E poi, a un certo punto, si è come affezionato al personaggio. Non so spiegarle in che modo. Non puoi chiedere a un bambino la memoria emotiva. Ma nei suoi occhi – profondi, tristi, grandi – c’era tutto il senso di cui avevamo bisogno. Ecco, i bambini fanno questo. Trovano un senso alle cose. E lo fanno senza impostare la voce, senza esagerare. Bisogna stare attenti. Perché si distraggono facilmente, i bambini.

Esterno Notte che cos’è? Una serie tv o un film?

Io onestamente non ho pensato a una differenza. Con gli altri sceneggiatori (Ludovica Rampoldi, Stefano Bises e Davide Serino, ndr) abbiamo capito che serviva un tempo diverso, più dilatato. Ne avvertivo l’esigenza visto che avevo già affrontato la storia di Moro.

Da che cosa è nato questo bisogno?

Volevamo indagare tutta una serie di personaggi, e dare a ognuno di loro il giusto spazio. Una specie di capitolo dedicato. Poi, all’interno delle varie puntate, dei vari episodi, io ho cercato di non correre come invece si fa in televisione, ma di tenere comunque alto il livello di attenzione e coinvolgimento. E poi era importante intrecciare a ogni scelta narrativa la suspense: dovevamo riuscire a emozionare il pubblico anche davanti a eventi conosciuti. Quindi il linguaggio che abbiamo utilizzato, rispetto ad altre cose che ho fatto, è un linguaggio più d’attacco.

In che senso?

Serve per stare più vicino ai personaggi. Trascurando, talvolta, determinate questioni sulle immagini e sulla loro bellezza. Anche questa, se vuole, è stata una differenza rispetto al passato. Ho sempre pensato a Esterno Notte come a una serie. Poi ha avuto un’anticipazione come film, è stata trattato come film ed è stato presentato come film. Ma non era una cosa prevista.

Che cosa pensa del remake de I pugni in tasca, diretto da Karim Aïnouz con Kristen Stewart, Josh O'Connor ed Elle Fanning?

È una cosa curiosa. Quasi lunare. Auguro al regista di riuscire a trasformare il soggetto e di farlo suo. Non è una consolazione, perché io non ho bisogno di essere consolato. Ma è una cosa veramente bella vedere quel piccolo film, realizzato a Bobbio, così brutale e mai compiaciuto della sua violenza, diventare uno spunto per qualcun altro.

Che cos’è, secondo lei, che piace de I pugni in tasca?

Forse in sé ha una crudeltà attuale, interessante, che incuriosisce e riesce a esprimere qualcosa. Non è un film esplicito nella sua violenza, I pugni in tasca.

Vedrà questo nuovo film?

Certo. Ma non starò lì a intervenire o a commentare.

Ho sentito che le piace il cinema di Christopher Nolan.

Sono incuriosito, questo sì, dai film che ha fatto. Così come mi incuriosiscono i film di quell’altro regista canadese.

Xavier Dolan?

Dolan, sì. Si vede che entrambi amano un cinema non solo spettacolare, ma molto radicato nella tradizione europea. Ne sono chiaramente influenzati.

In un’intervista con DEADLINE, Martin Scorsese ha ricordato il discorso di Akira Kurosawa agli Oscar, quando disse, a 83 anni, di aver finalmente capito le possibilità del cinema ma di non avere più tempo per esplorarle tutte. Lei quando ha capito le possibilità che il cinema offre?

Ognuno ha il proprio destino. Quelle cose che credo di capire oggi, in tarda età, sperando di poter fare ancora altri film, non le avevo capite da ragazzo. Non le avevo nemmeno viste. E parlo delle possibilità, di un discorso maturo e allo stesso tempo sperimentale. Di un’immaginazione che si può applicare senza il bisogno di dover partire per forza da una cosiddetta storia personalissima. L’ho detto a un suo collega: mi fu proposto di girare Il nome della rosa. E io rifiutai. Non perché ne avessi timore, no. Ero diffidente nei confronti del successo del libro. Oggi, probabilmente, non rifarei la stessa scelta.

Perché?

Perché si può parlare di sé stessi e raccontarsi partendo anche da una storia apparentemente lontana.

Il cinema permette di rimanere per sempre giovani?

Dipende. Non vale per tutti. Io continuo ad avere voglia di immaginare qualcosa, di girare, di raccontare una storia. Arrivare alle riprese è difficile; ci sono dei passaggi spesso complicati. Ma mi piace pensare di poter ancora lavorare. L’alternativa, altrimenti, qual è? Scrivere le proprie memorie, affidarle a un editore e sperare che vengano lette? Ho sempre provato ad allontanare queste proposte.

Non le piace scrivere di sé stesso?

Sono i film, alla fine, a raccontarti. Non c’è bisogno, per me, di una biografia. Nel tempo si sono accumulate sceneggiature, idee iniziate e mai finite, tanti spunti e stralci. Se uno volesse fare un lavoro di raccolta, alla mia morte, avrebbe del materiale da cui partire. Gli editori vogliono fare queste biografie, che tra l’altro non vanno mai bene, non vendono per niente, per mettere un punto, per coinvolgere un giornalista che passa qualche giorno con il soggetto della biografia, gli fa delle domande e poi scrive. Spesso, però, questi libri sono pieni di pettegolezzi e curiosità. Nient’altro.

Rapito è un film sul potere? E non mi riferisco solo al Papa, ma anche al rapporto che questo bambino ha con i suoi genitori e la sua famiglia.

Più che una storia triste, questa è una storia drammatica. Parliamo di un bambino che è stato traumatizzato, e che ha dovuto imparare a convivere con il suo trauma. Io non credo alla sua conversione; i cattolici sì. Ma per me questa sua conversione è diventata come uno scudo, qualcosa dietro cui rifugiarsi; a un certo punto, si è ritrovato tra due famiglie, che ha sempre cercato di compatire e di conciliare, ma di cui, alla fine, si è ritrovato quasi prigioniero. La sua è una storia dolorosa. Molto dolorosa.

Quindi è più un racconto di formazione?

La formazione di questo uomo è particolare. Ha mantenuto i contatti con la sua famiglia. Forse è più la storia del crollo del potere temporale della chiesa, che ha cercato di attaccarsi con forza al suo lato più spirituale. Ed è la storia di un sopruso, in cui c’è una vittima.

A quanto pare il suo prossimo progetto sarà su Enzo Tortora. In questo caso, qual è la prima immagine che le è venuta in mente?

Se dovessi decidere di procedere, sarebbe sicuramente un film sulla televisione. Lo so che può suonare irriverente, quasi come uno scherzo, ma è la cosa che, a oggi, mi attira di più. Forse partirei dal pappagallo di Portobello.

Dal pappagallo? E perché?

Perché Portobello era un simbolo. Qualcosa che una certa cultura di sinistra detestava. Nella storia di Tortora, ci sono tanti elementi che sono già stati raccontati e mostrati al cinema: l’uomo famoso che cade in disgrazia e che deve rialzarsi e ricominciare. Penso ad Alfred Hitchcock e a Nanni Loy. Resta, però, una riflessione profonda, attualissima, sulla televisione, sulla giustizia e sul successo.

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