Davide Minnella su Fuori la verità: “La tv illumina ma può bruciare. I reality oggi troppo lunghi, serve una pausa”

Con il film Fuori la verità, al cinema dal 6 novembre, il regista Davide Minnella delinea il confine sempre più labile tra spettacolo e vita reale. Dopo anni dietro le quinte della televisione italiana, da autore di programmi cult come Affari Tuoi, I Soliti Ignoti, Grande Fratello e L’Isola dei Famosi, porta sul grande schermo il lato oscuro del piccolo schermo: quello in cui la sofferenza diventa intrattenimento e la verità si misura in punti di share. Un film che "non è contro la tv", bensì denuncia e riflessione profonda su una certa deriva, quella che cavalca il desiderio sempre più impellente di essere visti, dove la luce dei riflettori illumina ma può anche bruciare.
Raggiunto al telefono, ci ha raccontato come i casting tv di alcuni programmi lo abbiano ispirato per i vari personaggi e come certi modelli televisivi gli abbiano fornito spunti per costruire l'immagine tossica, seppur profondamente umana, della spietata conduttrice Marina Rock (Claudia Pandolfi), alle prese con la famiglia Moretti e la loro scalata verso il milione di euro con i loro segreti più inconfessabili. Un film che parla di noi, spettatori complici e affamati di emozioni che si indignano di fronte a programmi che giocano e corrompono chi vuole farne parte, ma intanto continuano a guardarli.
La tua esperienza come autore televisivo ti ha aiutato nella realizzazione di questo film?
Sì, tantissimo. Ai casting mi raccontavano talmente tante cose — anche molto intime — che a un certo punto mi sono detto: “E se tutta questa roba diventasse un film?”. Mi sono chiesto: e se invece di rispondere a domande di cultura generale, i concorrenti rispondessero a domande sulla propria vita privata? E come faccio a capire se dicono la verità o mentono? Da lì ho studiato tutto il meccanismo della macchina della verità.
È così immagino sia nata l’idea di Fuori la verità.
Come autore tv, ci sono diversi casting che mi hanno ispirato, da quelli per i reality show ai talent. Ma Fuori la verità racconta un’altra televisione: quella che spinge, che esaspera, che mette a nudo. È quel tipo di tv in cui il dolore viene confezionato come emozione da prima serata, dove la sofferenza diventa spettacolo.
Hai detto che la televisione illumina e seduce, promette ricompense sempre più alte. Qual è, secondo te, il prezzo da pagare?
Altissimo. La tv ti accende, ti fa sentire visto, ti dà voce, ma allo stesso tempo può bruciarti. Quando la luce si spegne, resta la persona. Restano il nervosismo, la rabbia, la verità. E per chi la fa, il prezzo è la coscienza. Ogni autore, ogni conduttore sa di avere una responsabilità enorme: decidere fin dove spingersi, fino a emozionare o a ferire. La televisione chiede sempre di più: un’emozione più forte, una confessione più intima, un dolore più grande. E ogni volta ti devi chiedere: “Lo sto facendo per loro o per lo share?”.

Nel film la famiglia Moretti partecipa al gioco per una ragione economica. È un modo per giustificarli?
Sì, l’escamotage economico serve a dare un movente umano. Ma in realtà la vera miccia è un’altra: più dei soldi, il bisogno di essere visti. Viviamo in un’epoca in cui i quindici minuti di celebrità non bastano più. Vogliamo restare dentro lo schermo — televisivo o social — e non uscirne mai. È una fame esistenziale.
Qual è il prezzo che pagano loro?
Il denaro li spinge, ma non li salva, il prezzo che pagano non è economico, è affettivo. La verità oggi si vende, si confeziona, si monetizza e noi siamo complici, perché ci indigniamo ma non smettiamo mai di guardarla. Quella vera però non ha musica, non ha luci, non ha montaggio: è ruvida, silenziosa, e fa male.
Nel film giochi molto con il contrasto luce/ombra, anche nella scenografia. Lo studio è fatto di eccessi, poi quando le vite vere prendono il sopravvento la narrazione si avvale del buio nel backstage. È un linguaggio simbolico?
Volevo che tutto fosse realistico, anche visivamente. Volevo restituire quella sensazione di iper-esposizione, di seduzione luminosa che nasconde però un lato oscuro. Lo studio è costruito come un luogo circolare, accogliente, ma in realtà ingannevole, mentre la luce promette verità, ma la verità vera, quella scomoda, arriva solo quando tutto si spegne. C’è la luce artificiale dello show e quella interiore, più fragile, che si accende solo dietro le quinte, quando si piange, si litiga, ci si perdona.
Il film sembra una denuncia di una certa deriva televisiva, non della tv in sé.
Non è un film contro la televisione, esatto, ma sul suo potere. La tv non è uno schermo, è uno specchio, e se guardiamo bene dentro quello specchio, ci siamo anche noi. Fuori la verità non accusa, ma osserva. Mostra il lato spietato del mezzo, ma anche la sua umanità. I Moretti sono la nostra immagine riflessa: amano, mentono, si difendono, si perdonano. Non ci sono eroi né colpevoli, solo persone che cercano di restare unite mentre tutto si spezza.
Claudia Pandolfi interpreta Marina Rock, una conduttrice cinica e ambiziosa. Un personaggio inedito per lei. Com’è stato costruirlo?
È stata straordinaria, ha studiato tantissimo, si è messa completamente in gioco. Marina Rock è un personaggio difficile: spietata davanti alle telecamere, fragile dietro le quinte. Claudia le ha dato eleganza, misura, umanità. Non l’ha mai resa “cattiva”, le ha dato umanità anche attraverso il dolore.

Ti ha ispirata qualche conduttrice in particolare?
Ovviamente ci sono riferimenti riconoscibili di un certo tipo di televisione, ma non volevo imitare nessuno. Volevo sintetizzare quella tv che spettacolarizza la verità. Fortunatamente in Italia non esiste ancora un programma come quello del film, e spero non esisterà mai.
Nel cast c’è anche Leo Gassmann, nei panni di Flavio Moretti. Il suo personaggio vive una verità “scomoda”: quella legata al proprio orientamento sessuale. Sembra anacronistico, ma è ancora necessario raccontarlo oggi.
È ancora una verità difficile da dire, sì. Flavio ha paura non del suo essere, ma dello sguardo della sua famiglia. Il suo segreto parla dell’Italia di oggi, dove troppo spesso l’amore deve ancora chiedere permesso. È un ragazzo che non vuole scandalizzare, vuole solo essere accolto, e la cosa più assurda è che riesce a dirlo solo davanti a milioni di spettatori, non ai suoi genitori. Leo è stato bravissimo. Ha lavorato con una delicatezza e una verità incredibili. E forse Fuori la verità parla proprio di questo: di come la verità, quando arriva, non salva. Ma libera.
Tra le verità scomode, c'è anche OnlyFans. Come mai hai deciso di inserirlo nella storia?
Il discorso su OnlyFans nasce da una riflessione sul modo estremo con cui oggi si utilizzano i social. Non è una cosa che personalmente condivido. Va benissimo raccontarsi, mostrarsi, pubblicizzarsi, anche costruirsi una vita un po’ ideale sui social, capisco questo utilizzo. Ma utilizzare un social per guadagnare dei soldi mostrando sé stessi, monetizzando anche quella parte lì, la trovo una roba un po’ estrema. E ne ero talmente affascinato che ho voluto renderlo una parte del racconto.
A un certo punto, diventa quasi una metafora del nostro tempo.
OnlyFans è un luogo in cui l’intimità diventa merce e la libertà di mostrarsi si confonde con la necessità di essere visti. È una piattaforma nata come spazio di autonomia, ma spesso diventa il palcoscenico di solitudini travestite da consapevolezza.

Hai lavorato a lungo come autore televisivo in programmi cult: Affari Tuoi, Soliti Ignoti, La Vita in Diretta, Grande Fratello VIP, L’Isola dei Famosi. La lezione più importante che hai tratto da questo mondo e poi hai portato nel cinema?
La lezione più importante è stata imparare a lavorare in squadra. Ho visto capi progetto che giocavano da soli, senza valorizzare i talenti del gruppo, e altri invece che sapevano unire le persone. Mi sono detto che è a loro che volevo somigliare. Il cinema è un mondo molto piramidale, dove decide il regista, ma se riesci a fare un buon film, il merito è di tutti.
La consapevolezza maturata che ha fatto più male invece?
La consapevolezza che odio il conflitto, l'ho scoperto a mie spese. Ad esempio, ho vissuto un'Isola in Honduras in cui facevo fatica a vivere l'esperienza da un punto di vista umano e psicologico, lì ho fatto davvero fatica a dare il meglio di me. Queste situazioni meno sane ti fortificano comunque, anche se sono meno piacevoli.
Nel film la gestione del budget in un game show diventa un elemento centrale. Penso, tra tutte, alla polemica sul budget di programmi come Affari tuoi dopo le dichiarazioni di Max Giusti.
È normale che in un programma ci siano dei limiti di budget, non puoi regalare cifre folli ogni sera. Come autore costruisci il gioco tenendo conto di quei limiti, aumentando la difficoltà man mano. Si ragiona a livelli di difficoltà, non è scorrettezza, è struttura, per evitare che si arrivi sempre a cifre altissime. Fa parte del gioco.
Attualmente sei autore dei programmi di Amadeus su NOVE, da Chissà chi è a The Cage. Che responsabilità comporta “cucirgli addosso” un nuovo vestito per un pubblico diverso da quello di Rai 1?
Con Ama ci divertiamo come sempre. È cambiata la rete, ma la passione è la stessa di quando facevamo risultati più alti. Lavorare su una rete con un target diverso, che gioca con linguaggi più contemporanei come in The Cage e Like a Star, è più complicato, ma stimolante. Devi conoscere bene il pubblico e adattare ritmo e tono, ma senza snaturare l’identità di chi conduce.
Tu che di reality ne hai fatti tanti, come leggi la crisi che vivono oggi?
Credo che il problema principale sia la durata. Programmi di sei, sette, otto mesi sono troppo lunghi, lo spettatore si stanca, le dinamiche si ripetono. Servirebbe una pausa, un anno di stop per far respirare tutti, chi li guarda e chi li fa. Raccontare storie vere richiede tempo, studio, capacità. È come per il cinema: non puoi fare un film l’anno e pretendere che ogni volta sia innovativo.
Oggi il pubblico è spettatore continuo di vite altrui — nei reality, sui social, nei talk show. Uscito dalla sala, quale riflessione speri che porti a casa?
Più che una domanda, mi piacerebbe che il pubblico portasse a casa una risposta: quanta verità siamo disposti a sopportare davvero? Non è un film che giudica, ma che invita a riflettere. Tutti abbiamo una verità che nascondiamo e una bugia che ci tiene in piedi.
E sei d’accordo che, in fondo, non tutto va detto?
Assolutamente, la verità bisogna meritarla, si può dirla solo alle persone che amiamo davvero perché quando dici la verità, abbandoni una parte di te.
Una tua verità da liberare, per chiudere l’intervista?
No, nessuna. Ne ho già dette tante con questo film, sono in ognuno di quei personaggi. Fuori la verità è il mio film più autobiografico.