
Il titolo di questo articolo ha un attacco scontato, praticamente ovvio. Che La Grazia non sia Parthenope è un dato di fatto, così come è un dato evidente che gli ultimi due film di Sorrentino siano tra loro assai dissimili, non fosse che per il fatto di essere due film differenti e slegati tra loro. Ma siccome il confronto con i film passati è un vizio in cui lo spettatore indugia spesso, specie nel caso di registi di peso come Sorrentino, questa premessa pare necessaria per frenare le aspettative di chi potrebbe arrivare in sala eccitato all'idea di vedere qualcosa di simile all'opera precedente del regista partenopeo.
Ne La Grazia, al cinema in questi giorni di Natale in anteprima, solo al mattino, gli spettatori faticheranno a trovare le allegorie, le immagini evocative e volutamente poetiche, i frammenti ricolmi di impatto simbolico e allo stesso tempo perfetti per la dinamica della circolazione parcellizzata sui social. La nuova fatica di Sorrentino, pur ricca di scorci potenti e istantanee capaci di farsi largo nell'immaginario collettivo e le conversazioni quotidiane, è per certi versi meno incline a quella seduttività continua che caratterizzava il riuscitissimo film del regista del 2024.
La Grazia, che vede Toni Servillo nei panni di un presidente della Repubblica alle prese con il semestre bianco e le ultime fatiche del suo mandato, non cerca la vertigine visiva, ma è un'opera riflessiva che contempla la solitudine dell'uomo e del giudice davanti al tramonto della propria esistenza e della propria funzione pubblica.
Nelle ambientazioni sontuose degli enormi spazi del Quirinale, che fanno sembrare questo film molto vicino al lavoro che Sorrentino aveva fatto racconta il suo pontefice immaginario in The Young Pope, tengono banco le ultime decisioni che il Capo dello Stato è chiamato a prendere, in cui i temi dell'amore e della morte si sovrappongono, si fondono e si confondono, quasi a nascondersi vicendevolmente: il presidente deve decidere di due richieste di grazia da parte di due persone condannate per avere ucciso i propri partner e su una firma da apporre (oppure no) su una legge per l'eutanasia.

Ecco, questo concetto, il fine vita, potrebbe andare oltre l'immagine-meme di un Capo di Stato che ascolta le canzoni di Guè ed essere il vero elemento centrale e preponderante del film quando l'effetto – importantissimo per il cinema, quasi salvifico – del film di Zalone si sarà esaurito e resterà lo spazio per l'uscita, vera, de La Grazia a metà gennaio.
Se c'è una cosa che caratterizza i tabù è che, oltre a essere tali, non si può nemmeno dire che lo siano. Ecco, il tema dell'eutanasia è un tabù così lontano dal fare parte del nostro dibattito da essere puntualmente sorpassato anche da temi che avrebbero meno appeal sull'opinione pubblica di quanto ne eserciterebbe un manuale di funzionamento di un climatizzatore. Prendi il caso di un referendum sulla giustizia, che rischia di essere l'argomento principale del prossimo trimestre, quando una questione come il fine vita non solo passa puntualmente in secondo piano, ma sembra non occuparne nemmeno uno proprio di piano. Sembra, anzi, che un piano su cui poggiarsi nemmeno ce l'abbia.
E allora se il nuovo film di Sorrentino dovesse riuscire ad aprire una finestra di dibattito sull'impossibile, magari costringendo questa volta la politica a fare polemica su un film quando la polemica ha ragion d'essere, e non solo per mettere il cappello su una commedia che incassa milioni col pretesto di deridere la controparte, come si sta facendo miseramente con il film di Zalone in questi giorni; ebbene, se questo dovesse accadere, allora La Grazia potrebbe rivelarsi il più importante degli ultimi film di Sorrentino. Il cinema può avere ancora questo potere?