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Costi della politica, il rapporto. Rai e vitalizi: i tagli possibili

Il Corriere della Sera rivela i contenuti del rapporto sui costi della politica del commissario Cottarelli, pronto da diversi mesi. Dito puntato sul giro di nomine nei tg a ogni cambio di governo.
A cura di Biagio Chiariello
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Comuni, Regioni, buste paga di deputati e senatori, decreti attuativi ancora nei cassetti e i costi di gestione della Presidenza del Consiglio. Sono queste le voci di spesa, o meglio “di spreco”, individuate nel rapporto sui costi della politica messo a punto dal commissario per la spending review Carlo Cottarelli. Una relazione pronta da 4 mesi, ma rimasta sempre nel cassetto. Ora è il Corriere della Sera a rivelarne i dettagli in un articolo a firma di Sergio Rizzo che parla di un lavoro messo a punto non senza difficoltà da pool di esperti coordinato da Massimo Bordignon, e non senza ostruzionismo da parte di alcuni settori pubblici. La conclusione è che sul fronte di Comuni e Regioni si potrebbero realizzare economie per 630 milioni di euro l’anno oltre a quelle già portate a casa con le riforme fatte a partire dal governo di Mario Monti.

Quasi metà, pari a 300 milioni e 698 mila euro l’anno, deriverebbe da interventi sulle amministrazioni comunali. Il rapporto suggerisce l’accorpamento dei piccoli Comuni (quelli sotto i 5 mila abitanti), la riduzione del 20 per cento del numero di consiglieri e assessori (oggi quasi 139 mila), l’eliminazione del trattamento di fine rapporto per i sindaci e il taglio compreso fra il 10 e il 20 per cento delle remunerazioni per il personale politico nei municipi al di sotto dei 15 mila abitanti. Tutte misure, si aggiunge nel documento, che andrebbero necessariamente estese anche alle Regioni a statuto speciale alle quali viene riconosciuta autonomia finanziaria nella gestione della finanza locale, quali Valle d’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia. Altri 330 milioni sarebbero i risparmi attesi dall’applicazione dei «costi standard» agli apparati politici regionali.

I tagli voluti dal governo, non attuati dalle Regioni

Il fatto è che molti si sono dimostrati riluttanti ai tagli imposti dal governo sull’onda dello scandalo Fiorito nella Regione Lazio e quello dei rimborsi in Lombardia. Nonostante in seguito al decreto Monti sia stata fissata una retribuzione lorda onnicomprensiva uguale per tutti i consiglieri (11 mila euro mensili), i dati pubblicati per legge sui vari siti “non dicono quanti consiglieri cumulano all’indennità di carica le varie indennità di funzione previste, ed è dunque impossibile calcolare la retribuzione effettiva”, sostiene il rapporto. C’è da dire che le differenze dei costi tra Regione e Regione sono marcatissime. La media nazionale per consigliere “è superiore ai 900 mila euro ma Lazio, Calabria e Sicilia spendono più di un milione e mezzo mentre Molise e Marche sono attorno ai 500 mila euro”, rivelano gli autori.

Affermando la necessità di ridurre anche qui, ulteriormente, di 266 unità il numero di assessori ed eletti, con un risparmio possibile di 35 milioni: più altri 25 se si allineasse lo stipendio del consigliere a quello del sindaco del capoluogo. In tutto, dunque, sessanta milioni. Che salirebbero a 107 se, come propone il rapporto, si eliminasse anche il rimborso forfettario mensile. «In fondo», scrivono gli esperti di Cottarelli, «ai percettori di redditi di lavoro dipendente non è in genere riconosciuto un rimborso per le spese attinenti alla loro attività». Non si capisce quindi per quale ragione i consiglieri regionali debbano averne diritto.
Altri 50 milioni di minore spesa potrebbero derivare dalla revisione dei vitalizi pagati agli ex consiglieri in base ai cosiddetti diritti acquisiti: semplicemente ricapitalizzando i contributi effettivamente versati sulla base del sistema contributivo e ricalcolando così gli assegni mensili.

La Rai, simbolo degli sprechi nel settore pubblico

C’è poi il caso Rai. “A ogni cambio di governo, maggioranza e ad ogni scadenza del consiglio d’amministrazione segue normalmente un giro di nomina dei direttori dei telegiornali, i quali a loro volta nominano e promuovono 3-4 tra vicedirettori e capiredattori per governare con persone fidate. I passati capi tornano a disposizione mantenendo però stipendi, titoli e ruolo che avevano precedentemente. Il risultato è che ad esempio nel Tg1 solo un terzo dei giornalisti è un redattore ordinario e gli altri due terzi sono graduati”, si legge nella relazione firmata da Cottarelli. E l’ex deputato del Pd Michele Anzaldi a spiegare meglio la situazione: un anno fa su 113 giornalisti del Tg1 appena 32 erano redattori ordinari, mentre i soli capiredattori risultavano ben 34. Rapporto fra soldati semplici e graduati? Uno a 2,5. Non è un caso se nel rapporto sulla spending review la Rai viene assunta a simbolo poco edificante, tale da portare gli autori ad una accomandazione: quella che “le posizioni apicali nelle imprese pubbliche soggette a nomine politiche devono avere carattere temporaneo, con la previsione che la retribuzione segua la funzione effettivamente svolta”.

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