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Che Donald Trump subisse il fascino oscuro delle dittature non è mai stato un mistero. Era evidente fin dal suo primo mandato, nei sorrisi scambiati con Vladimir Putin e nelle strette di mano con Kim Jong-un. Ma la conferma definitiva di questa sua attrazione fatale per l’"uomo forte" è arrivata con l'incontro con il capo della milizia HTS, il nuovo padrone della Siria che esattamente un anno fa rovesciava il regime di Assad. Trump ama chi comanda senza vincoli, e questo ridisegna la mappa delle nostre paure, anche quando chi gli stringe la mano uno jihadista tagliagole, uno che fino a pochi giorni prima aveva su di se una taglia per la sua morte.
Eppure, ciò che colpisce oggi con maggiore violenza non è l'atteggiamento del tycoon, ma la posizione in cui si trova il Vecchio Continente. L'Europa è oggi schiacciata, politicamente e geograficamente.
Da un lato c'è l'America trumpiana, che ha smesso di essere l'ombrello protettivo che conoscevamo. Le convenzioni dell'Alleanza Atlantica sono carta straccia; la NATO, pur formalmente in vita, è ormai un ente marginale, svuotato di peso politico dalla sua stessa fondazione. A questo si aggiungono le bordate costanti, quotidiane, di figure come Elon Musk, che hanno trasformato l'Unione Europea in un bersaglio polemico sistematico.
Dall'altro lato c'è la Russia. Putin, forte della disgregazione occidentale, non ha mai nascosto il suo obiettivo: indebolire l'UE per riprendere il controllo sullo spazio post-sovietico, dalle Repubbliche Baltiche a ciò che resta della questione ucraina.
Eppure chi denunciava la pericolosità di Trump veniva etichettato come allarmista. Oggi la realtà presenta il conto.
Per molto tempo, in Europa ci siamo illusi. Chi tentava di dialogare sperava di "normalizzare" Trump, di riportarlo nei binari di una democrazia ordinaria. Chi lanciava l'allarme durante la campagna elettorale veniva liquidato come disfattista. Oggi, purtroppo, appare chiaro che quegli "allarmisti" avevano ragione: l'isolazionismo americano non è una tattica negoziale, è una strategia compiuta.
Ma il vero dramma dell'Europa non è solo esterno. Il nemico è dentro. L'Unione è indebolita, frammentata, o per usare un termine sgradevole ma efficace: balcanizzata.
La crisi interna è profonda. I governi sovranisti — come quello italiano o ungherese — marciano apparentemente uniti da un'ideologia comune, ma si scontrano con la realtà dei fatti: il sovranismo, per definizione, tutela l'interesse nazionale a discapito di quello comunitario. Se seguissero davvero le loro parole fino in fondo, assisteremmo a un "tutti contro tutti". Gli interessi del Nord Europa divergono da quelli del Sud, quelli dell'Est da quelli dell'Ovest. L'Unione, che per decenni ha garantito una sintesi — a volte imperfetta, ma vitale — oggi è paralizzata.
Siamo a un bivio esistenziale. Di fronte a questa duplice pressione, esterna e interna, la tentazione è quella del riarmo. Ma attenzione: stiamo andando verso un riarmo nazionale, non europeo. Questo non ci renderà più sicuri di fronte alla Russia, ma aumenterà esponenzialmente il rischio di conflitti intestini tra gli stessi paesi membri.
La vera risposta, l'unica rivoluzionaria e sensata, dovrebbe essere opposta. Non più armi per difendere confini che ci dividono, ma un investimento massiccio sul welfare. Dobbiamo investire sulla sicurezza sociale, sulla stabilità economica e sul benessere dei cittadini. Il malcontento è la benzina del sovranismo e della disgregazione; solo prosciugando quel malcontento, garantendo pace sociale e tutele reali, l'Europa potrà salvarsi dalla sua fine annunciata.
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