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Oggi è il momento della liberazione degli ostaggi israeliani e quello della firma in Egitto: Trump sta volando in Medio Oriente per quella passerella che ha cercato, voluto, bramato. Un discorso alla Knesset e la cerimonia dove “tutti i Paesi arabi sono d’accordo con il mio piano”, ha dichiarato lo stesso Trump in volo dall’Air Force One.
Mentre la piazza di Tel Aviv aspetta gli ostaggi, tra le macerie di Gaza si scava per cercare i 10.000 dispersi in due anni di genocidio. Scheletri emergono dalle macerie e le famiglie cercano i loro cari, cercando di riconoscerli dagli abiti, dai dettagli. Un numero imprecisato che si andrà ad aggiungere agli oltre 67.000 morti accertati, giusto per ricordare che per due anni c’era chi continuava a specificare che quel dato era pur sempre comunicato da Hamas, quindi non attendibile.
Proprio tra quelle macerie oggi bisogna ragionare del futuro: l'impresa di ricostruire Gaza non è un progetto misurabile in mesi. È un processo graduale che, alla luce di una devastazione su scala industriale, si misurerà inevitabilmente in decenni. Questa non è pessimistica congettura, ma l'impietosa aritmetica della logistica: la valutazione congiunta di Banca Mondiale e Nazioni Unite ci sbatte in faccia il dato più crudo. Rimuovere le stimate 53 milioni di tonnellate di macerie richiederà l'equivalente di 21 anni di sforzi ininterrotti. Questo colossale macigno non è solo un ostacolo fisico, ma l'ancora logistica che inchioda al suolo l'orizzonte minimo per qualsiasi barlume di vero rinnovamento urbano.
L'ipocrisia dei numeri
La catastrofe fisica è, a tutti gli effetti, quasi totale. I numeri urlano la dimensione della distruzione funzionale: si stima che il 94% degli ospedali, il 90% degli appartamenti residenziali e il 90% delle scuole siano stati polverizzati o gravemente compromessi. La ricostruzione è un'impresa che va oltre l'ingegneria, arrivando ad un progetto finanziario ed edilizio titanico. Le stime parlano di 53 miliardi di dollari per ricostruire Gaza, una cifra che supera di tre volte il Prodotto Interno Lordo (PIL) palestinese.
Il tradimento delle promesse
Eppure, la vera montagna da scalare non è la scala del danno, né la mancanza di "promesse". È la cronica inaffidabilità con cui tali promesse vengono mantenute. Nei precedenti, tragici cicli di emergenza, Gaza ha visto concretizzarsi solo un misero 5% degli aiuti che la comunità internazionale aveva promesso.
Cemento e metalli vietati
L'Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) ha parlato di 5 anni per la ricostruzione, una stima che non tiene conto della quantità di bombe scaricate su Gaza in questi due anni, della necessità di una bonifica che le organizzazioni internazionali stimano in un lavoro di 21 anni, ne tantomeno delle difficoltà di far entrare molti materiali che Israele considera “double use”, ovvero metalli e cemento, necessari alla ricostruzione ma che, secondo lo Stato ebraico potrebbero trasformarsi in infrastrutture di Hamas o armi.
Come delineato anche da un dossier del Senato della Repubblica italiana, l'aiuto è ormai trasformato in un meccanismo di pressione: "qualsiasi piano per il futuro di Gaza debba fornire soluzioni credibili per la ricostruzione, la governance e la sicurezza e basarsi su un quadro politico e di sicurezza accettabile sia per gli israeliani che per i palestinesi".
Questo significa, in sostanza, che il cemento e l'acciaio sono ostaggi politici. L'embargo in corso sui materiali da costruzione, che controlla e contingenta ogni singolo sacco, non è solo una misura di sicurezza; è, come è stato argutamente definito, una vera e propria "dichiarazione politica". Senza un accordo politico duraturo che riempia il vuoto di governance e garantisca un quadro di sicurezza stabile, il flusso di materiali essenziali rimarrà bloccato tra le maglie della burocrazia, l'incessante tensione, il ricatto.
La Ricostruzione Come Pre-requisito di Pace
Insomma, ricostruire Gaza in 5 anni è una promessa che difficilmente può essere mantenuta, soprattutto se quello che è accaduto lo incaselliamo in quello che è stato definito un ecocidio di quel pezzo di terra, dove le bombe hanno reso la Striscia inabitabile senza una grande opera di bonifica. Ma come detto in precedenza questa non è un’opera di ingegneristica, è un’opera politica e di pace.
Perché senza questo presupposto tutto tornerà nel caos.