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Prima i paramilitari delle Rsf, le Rapid support forces, hanno annunciato di aver espugnato l’ultima base del regolare esercito sudanese a El Fasher. Poi hanno detto che stavano entrando in città. Una città che era sotto assedio da 18 mesi, oltre un anno, e dove la fame veniva usata per portare la popolazione civile allo stremo: i canali per gli aiuti umanitari erano stati tagliati, le vie di fuga bloccate. Nei mesi scorsi era stata dichiarata una grave carestia e ora che i miliziani sono entrati in città la situazione rischia di precipitare.
Nei giorni scorsi sui social hanno iniziato a circolare immagini e video atroci: uomini ammassati per le strade su cui poi i miliziani iniziavano ad aprire il fuoco, persone che cercavano di fuggire e venivano raggiunte e massacrate. E poi le denunce di stupri di gruppo, di violenze su base etnica. Il fantasmo di un genocidio che quella terra, il Darfur, ha già vissuto agli inizi degli anni Duemila.
È anche molto difficile verificare quello che si vede in rete, perché la connessione satelittare via Starlink è stata fatta saltare e di fatto la città è in un blackout comunicativo. Le paure, però, sono fondate: da due anni nel Paese è in corso una guerra civile ed entrambe le fazioni sono state accusate di terribili violenze e crimini contro l’umanità.
Come è scoppiata la guerra civile in Sudan
La guerra civile è scoppiata nel 2023. Una fazione è quella dell’esercito regolare sudanese, guidato dal generale Abdel Fatta al Burhan, che è di fatto anche a capo dello Stato; l’altra è quella dei ribelli delle Rapid Support Forces, comandate da Mohamed Hamdan Dagalo, soprannominato Hemedti. I due una volta erano alleati e insieme hanno rovesciato il presidente Omar al Bashir nel 2019. Poi nei 2021 c’è stato un coup con il quale al Burhan si è assicurato il controllo del governo di transizione e poi, questa lotta interna per il potere, si è trasformata in una guerra civile.
Entrambi i generali sono stati accusati di crimini di guerra, per aver preso di mira i civili e per aver bloccato gli aiuti umanitari, ed entrambi sono stati sottoposti a sanzioni. Le Rsf hanno alle spalle una lunga storia di violenze: di fatto sono un’evoluzione dei janjawid, cioè quella milizia araba che nei primi anni Duemila ha massacrato centinaia di migliaia di sudanesi in Darfur. Questa primavera i soldati delle Rsf hanno ucciso oltre 1.500 civili quando hanno attaccato il campo profughi di Zamzam, in uno dei peggiori massacri dall’inizio del conflitto.
Molte persone erano scappate da quel territorio, molte avevano cercato rifugio proprio a El Fasher. Ma ora, dalla città, arrivano di nuovo testimonianze di violenze, stupri e uccisioni su base etnica. Oltre mezzo milione di persone è riuscito a fuggire, ma in città rimangono intrappolati in circa 250 mila e non è chiaro cosa accadrà loro. La caduta di El Fasher potrebbe rappresentare un punto di svolta nel conflitto, un conflitto che avrebbe già causato la morte di 150 mila civili, sfollato 14 milioni di persone e ridotto alla fame intere regioni. Ma non è detto che questo comporti la fine delle violenze.
Come cambia la mappa del Paese con la presa di El Fasher
Ora, guardando alla mappa, il Paese appare chiaramente diviso in due. La parte sud-ovest sotto il controllo delle Rsf e la parte orientale invece in mano all’esercito, che la scorsa primavera è riuscito a riconquistare anche la capitale, Khartoum. I ribelli invece si sono concentrati nel Darfur e ora, con El Fasher, hanno rafforzato la via che va verso Nord, quindi verso la Libia, quella da dove passano i traffici di armi. Quest’estate Hemedti ha istituito un governo parallelo nella città di Nyala: e in effetti il Paese assomiglia sempre di più a una Libia, cioè un territorio diviso in due, una partizione totale, con due eserciti che controllano di fatto due Paesi diversi all’interno dello stesso Stato.
Il conflitto potrebbe quindi raffreddarsi su queste posizioni, ma non è affatto detto. Perché le Rsf, nonostante ora controllino un vasto territorio, grande quasi quanto la Francia, potrebbero anche approfittare di questa conquista per provare a rilanciare l’offensiva sulla capitale, Khartoum. Per ora non c’è alcun segnale che le violenze siano a punto di fermarsi.
I crimini di guerra e gli interessi in campo
Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha chiesto a tutti gli Stati che hanno una certa influenza nel Paese di “agire per impedire le atrocità”. E poi ha aggiunto che la comunità internazionale deve fare pressione su tutti quei Paesi che stanno interferendo nel conflitto, ad esempio vendendo armi all’una o all’altra fazione, affinché smettano di farlo.
Ma chi sono questi Paesi? E perché intervengono in Sudan?
Perché, come tanti altri Paesi africani, il Sudan è ricco di minerali preziosi. Dopo il Sudafrica e il Ghana, è il Paese con la riserva di oro più grande del continente. E non solo la rete mineraria e l’industria dell’oro è ciò che al momento alimenta economicamente il conflitto, ma è anche un patrimonio che fa gola a molti altri Paesi. Questa primavera un’indagine dell’università di Yale ha stimato che il 70% dell’oro estratto esca dal Sudan illegalmente: è con questo oro che si mantengono i miliziani e che si comprano le armi, e allo stesso tempo è con questo oro che l’esercito regolare si assicura il supporto degli attori esterni.
Alcuni anni fa, un’altra indagine delll’Organized Crime and Corruption Reporting Project aveva mostrato come gran parte dell’oro sudanese finisca poi negli Emirati arabi uniti, nelle raffinerie di Dubai. Gli Emirati negano qualsiasi coinvolgimento, ma di fatto insieme al Ciad, alla Libia e all’Etiopia, figurano sempre tra i principali sostenitori delle Rsf, mentre l’Egitto è considerato vicino all’esercito regolare. Ma ci sono anche altre presenze in Sudan. La Cnn, ad esempio, ha raccontato come la russa Meroe Gold – vicina al Gruppo Wagner – abbia messo le mani sul mercato dell’estrazione aurea, forse anche nel tentativo di avere una valuta che riuscisse a bypassare le sanzioni.
Che fine ha fatto la comunità internazionale
E infine, ci sono alcuni attori che, più o meno inconsapevolmente, hanno finito per foraggiare i miliziani. O almeno, questo è quello che negli anni hanno denunciato alcune inchieste, come quella del Swedish Development Forum, che ha raccontato come il processo di Khartoum – cioè un accordo tra l’Unione europea e il Sudan per la gestione dei flussi migratori – abbia finito per finanziare le milizie. Parliamo di decine di milioni di euro che Bruxelles ha dato al Sudan a partire dal 2014: dei finanziamenti allo sviluppo, in cambio di un’azione interna per il contrasto dell’immigrazione illegale. Un bel gruzzoletto su cui hanno messo le mani anche le milizie e che, di fatto, ha finanziato questa guerra sanguinosissima, dimenticata dal resto del mondo.
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