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Per comprendere bene una cosa sia fondamentale chiamarla con il suo nome. E per questo motivo non chiamerò il piano di Trump, il piano per la pace a Gaza. Perché è un piano per la capitolazione e la colonizzazione, è un piano che non tiene conto del diritto dei palestinesi ad autodeterminarsi e ad avere un loro Stato, è un piano che non pretende giustizia. Dimentica quello che è successo negli ultimi due anni, dimentica le decine di migliaia di morti, i civili uccisi, gli ospedali bombardati.
I venti punti proposti da Trump e subito accettati, chiaramente, da Netanyahu non prevedono in alcun modo la fine dell’occupazione illegale, non aprono la strada alla costituzione di uno Stato palestinese. Di fatto raccontano la consegna di Gaza a Trump, che ne diventerebbe il gestore supremo affiancato da figure come quella dell’ex premier britannico Tony Blair. A quasi ottant’anni dalla fine del mandato britannico, la Palestina si troverebbe di nuovo a essere di fatto, un protettorato, senza prospettive di autonomia, di autogoverno.
Trump parla di un nuovo Medio Oriente ma non descrive nulla di diverso da quello che abbiamo già visto il secolo scorso, con un progetto coloniale che nega ad un popolo il diritto di decidere per sé stesso, e lo fa in nome della pace. Ma nella dominazione non c’è nulla di pacifico.
Trump ha presentato i venti punti di questo suo piano durante una conferenza stampa alla Casa Bianca, al fianco del premier israeliano Benjamin Netanyahu. Che ha detto di sostenerlo e di accettarne le condizioni. Ovviamente, visto che sono condizioni tutte favorevoli al suo governo. Ora si attende la risposta di Hamas a questo ultimatum. Se non accetteranno, Trump e Netanyahu hanno detto, testualmente, che “finiranno il lavoro” a Gaza. Porteranno a termine il genocidio quindi, la distruzione totale della Striscia.
Ma cosa prevede nello specifico questo piano?
Per prima cosa, se entrambe le parti lo accettassero, dovrebbe scattare un cessate il fuoco immediato. E a quel punto Hamas avrebbe 72 ore di tempo per restituire gli ostaggi, sia quelli ancora in vita che i corpi di quelli deceduti. Una volta liberati gli ostaggi Israele dovrebbe liberare a sua volta 250 detenuti palestinesi e 1.700 gazawi arrestati dopo il 7 ottobre.
Terminata questa fase di scambio di prigionieri, si dovrebbe procedere con la consegna delle armi, da parte di Hamas, e con un graduale ritiro dell’esercito israeliano. Ma non è affatto chiaro con che tempistiche le IDF, le Forze di difesa israeliane, dovrebbero lasciare Gaza. E chiaramente il timore è che non lo facciano a breve e che si continui, di fatto, con un’occupazione militare. Tra l’altro il piano comunque prevede esplicitamente delle zone cuscinetto lungo il perimetro della Striscia: insomma, ci sarebbe comunque una sorveglianza militare continua, l’assedio di fatto non terminerebbe.
C’è poi la questione dell’amministrazione, del governo di Gaza. Che è forse uno degli aspetti più controversi di questo piano. Nel testo si legge che Gaza sarà amministrata da una commissione palestinese tecnocratica e apolitica, supervisionata da un Consiglio della Pace controllato dallo stesso Trump. Nel cosiddetto Board of Peace, che di fatto sarebbe il reale organo di governo della Striscia, ci sarebbe anche l’ex premier britannico, Tony Blair, che – vale la pena ricordarlo – è l’uomo che insieme a George Bush diede il via all’invasione dell’Iraq, dicendo che il regime di Saddam Hussein stesse fabbricando armi di distruzione di massa. Alla fine non era vero, ma in quella guerra morirono oltre un milione di persone tra la popolazione civile.
Chi ci sarà nel Board of Peace per Gaza e quali compiti avrà
Il compito di questo Consiglio sarebbe quello di governare Gaza fino a quanto non sarà completata la riforma dell’Autorità Nazionale Palestinese. Anche qui i tempi non sono chiari e il rischio è quello che di fatto la Striscia di Gaza rimanga permanentemente una colonia, assediata e controllata dall’esterno. Una colonia nella quale chiaramente Hamas non avrebbe alcun tipo di ruolo, ma a quanto pare nemmeno il popolo palestinese. Il territorio verrebbe demilitarizzato e contestualmente si andrebbe a creare un altro organismo, la Forza di stabilizzazione internazionale che dovrebbe garantire la sicurezza nella Striscia collaborando con gli israeliani e con i Paesi arabi.
Il piano prevede anche un programma di sviluppo economico, sulla linea di quel disegno di Trump per costruire la riviera del Medio Oriente. In questa fase di ricostruzione e di forti investimenti immobiliari – perché chiaramente bisognerebbe disfarsi delle macerie di questi due anni di bombardamenti continui e ricostruire tutto – ai palestinesi verrebbe data l’opzione di andarsene, ma non sarebbero obbligati. La paura, visto che è già successo in passato, è che dietro questi trasferimenti volontari ci sia in realtà la deportazione, senza alcuna possibilità di fare un giorno ritorno alle proprie case.
Che fine farà lo Stato palestinese?
In tutto questo, che fine fa lo Stato palestinese? Nel penultimo punto del piano si dice che forse, in futuro, potrebbero crearsi le condizioni per un percorso credibile. Ma è chiaro che la linea, di fatto, coloniale attuale non fa che allontanarne qualsiasi prospettiva: come si potrebbe mai parlare di uno Stato se non si lascia margine all’autodeterminazione, se non si coinvolgono le autorità politiche palestinesi, se non si rende il popolo palestinese e i suoi alleati partecipi di questo processo?
La verità è che questo piano è una resa, una capitolazione. Un arrendersi al volere di Netanyahu e del governo israeliano, alle loro condizioni, senza parlare invece di giustizia per un popolo massacrato e della fine dell’occupazione illegale. È un piano di sottomissione a delle potenze coloniali. In un negoziato reale sarebbe difficile da accettare, ma ora anche i Paesi arabi spingono Hamas ad accettare. Perché alla fine è l’unico modo per fermare i bombardamenti, l’unico modo per far entrare gli aiuti umanitari.
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