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Bondi Beach, una domenica di sole. La più famosa spiaggia australiana, a Sydney, è comprensibilmente affollata e la comunità ebraica locale ne approfitta per festeggiare l’Hanukkah, la più importante festività ebraica. Ma non sono nemmeno le 7 di sera che l’atmosfera cambia improvvisamente e quella che era una giornata di celebrazioni e spensieratezza diventa il teatro di una tragedia. Due uomini aprono il fuoco sulla folla. Per nove minuti piovono proiettili. La gente scappa, corre da tutte le parti. I due terroristi sono in una posizione sopraelevata, su un sovrappasso pedonale che guarda su quella porzione di spiaggia dove era stato organizzato il ritrovo della comunità ebraica.
Delle telecamere di sorveglianza riprendono tutto, anche il momento in cui un passante – poi identificato come Ahmed Al Ahmed, un fruttivendolo di 43 anni – si apposta tra le macchine alle spalle degli attentatori, si fionda su di uno e riesce a disarmarlo, prima di venire ferito dal secondo. Probabilmente grazie a quell’atto coraggioso qualche vita è stata risparmiata, ma il bilancio è comunque tragico. 15 vittime, decine di feriti. Tra i morti ci sono una bambina di poco più di 10 anni, un sopravvissuto all’Olocausto, un rabbino che qualche gorno prima aveva pubblicizzato il ritrovo sui social.
Chi sono gli attentatori e i loro moventi
I due attentatori sono padre e figlio. Sajid e Naveed Akram. Il primo – 50 anni, immigrato in Australia nel 1998 – è morto. Il secondo – 24 anni, nato nel Paese e cittadino australiano – è ricoverato in gravi condizioni. Sajid, il padre, aveva il porto d’armi dal 2015 e ne possedeva sei, tra fucili e pistole. Sono ore di ricostruzioni, ma a quanto pare sul luogo dell’attentato sarebbero state ritrovate quattro armi, un’altra è stata rinvenuta nella casa degli Akram a Sydney e un’altra ancora in un appartamento che padre e figlio avevano affittato qualche giorno prima. Poi un’auto con all’interno una serie di esplosivi artigianali è stata rinvenuta nelle vicinanze.
Qualche anno fa, nel 2019, i servizi di sicurezza avevano condotto delle indagini su Naveed, ritenuto vicino ad ambienti radicalizzati e potenzialmente pericolosi, secondo alcuni media legati allo Stato islamico. Ma in quell’occasione, alla fine, non è stato considerato radicalizzato e quindi non è mai stato posto sotto osservazione. Anche il padre era stato interrogato, ma anche su di lui non erano state fatte particolari osservazioni.
Il primo ministro australiano, Anthony Albanese, ha detto all’emittente pubblica che non ci sono prove che i due uomini fossero legati ad alcune cellule, seppur fossero chiaramente ideologicamente motivati. Ha parlato di “un atto di pura cattiveria e di antisemitismo” e ha promesso di mettere in atto ogni riforma necessaria contro questa “piaga”, insieme a leggi più severe per il controllo delle armi.
L'attacco di Netanyahu al premier Albanese
Nonostante le condanne, il suo omologo israeliano Benjamin Netanyahu lo ha subito attaccato. Anzi, ha accusato l’intero governo australiano di aver fatto delle scelte politiche che hanno “gettato benzina sul fuoco antisemita”. Nello specifico Netanyahu ha detto che l’antisemitismo è un cancro che si diffonde quando i leader tacciono e ha raccontato di aver scritto qualche mese fa una lettera ad Albanese per dirgli che le sue politiche incoraggiano l’odio per gli ebrei.
Delle accuse pesanti, che arrivano dopo mesi di deterioramento dei rapporti tra Israele e Australia. Il motivo? La decisione, da parte del governo australiano, di riconoscere lo stato palestinese come quest’estate hanno fatto anche il Canada, il Regno Unito, la Francia e diversi altri Paesi. Ora, da Netanyahu e dal governo di estrema destra israeliano ci si aspetta anche questa propaganda, che sovrappone il sostegno al popolo palestinese con l’antisemitismo. Ma il rischio è che si imponga esattamente questa narrativa.
La narrativa dell'estrema destra israeliana sull'antisemitismo
Una narrativa che, appunto, l’estrema destra israeliana e gli ambienti internazionali a lei vicini spingono molto. Ma un conto è l’antisemitismo, un altro è il sostegno al popolo palestinese, e un altro ancora è l’antisionismo. Alcuni antisionisti sono sicuramente antisemiti, ma non c’è un’adesione automatica a entrambi i concetti. E sostenere il popolo palestinese non vuol dire odiare quello ebraico, così come contestare il governo israeliano non significa avercela con ogni singolo cittadino di Israele. Un conto sono i governi, un altro sono i popoli.
Per Netanyahu è facile usare l’antisemitismo – che sicuramente esiste, ed è un sentimento odioso, sempre più pericoloso e violento – come una giustificazione per i crimini e le repressioni del suo governo. È una via d’uscita che permette di non essere mai responsabili delle proprie politiche, delle proprie decisioni. Ci si nasconde dietro l’antisemitismo per disinnescare le critiche e le contestazioni. Ma la realtà è un’altra.
È la realtà di un Paese, come l’Australia, che sicuramente ha visto aumentare gli episodi di antisemitismo dopo il 7 ottobre, con l’apice dell’attentato di Bondi Beach, ma che non per questo è un Paese antisemita. E sicuramente non lo è perché riconosce lo Stato palestinese. Raccontare il contrario non farà altro che aumentare l’odio. E l’odio, a sua volta, alimenterà ancora più odio.
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