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Charlie Kirk era uno dei più noti attivisti e influencer conservatori negli Stati Uniti. Probabilmente il più influente. Non solo perché era riuscito a mobilitare il voto giovanile a favore di Donald Trump alle ultime elezioni, ma anche perché poi era diventato un frequentatore della Casa Bianca, un amico del presidente e soprattutto del figlio, Donald Trump Junionr, che aveva anche accompagnato in quel discusso viaggio in Groenlandia.
Ieri è stato ucciso mentre stava partecipando a un evento alla Utah Valley University, parte del suo American Comback Tour. Stava facendo una sessione live di Prove Me Wrong, un format di dibattito che ha avuto molta fortuna sui social media, che si era inventato lui con la sua Turning Point USA, un’organizzazione che aveva fondato ad appena 18 anni che di base aveva l’obiettivo di diffondere gli ideali della destra conservatrice statunitense, soprattutto tra i più giovani.
Quando è stato colpito Kirk stava rispondendo a una domanda proprio sugli mass shooting, sulle sparatorie di massa che – lo sappiamo – sono un fenomeno frequente negli Stati Uniti. In particolare stava rispondendo a delle domande su quanti mass shooter fossero persone transgender. Too many, la sua risposta. Ci sono vari video circolati online, si sente lo sparo, si vede Kirk che si preme una mano sul collo e un fiume di sangue. Le persone iniziano a correre, a scappare. Lui si accascia. Non ci sono altri spari, ma quell’unico colpo è fatale. A confermare la sua morte è Donald Trump in persona.
Ha pubblicato un video in cui lo si vede seduto nello Studio Ovale. Si rivolge a tutti gli americani, dice di essere pieno di dolore e di rabbia nel dover annunciare l’assassinio di Charlie Kirk. Dice che Kirk ha ispirato milioni di persone, ora sconvolte. E dice che è arrivato il momento, per la società e per i media, di confrontarsi con il fatto che la violenza e gli attacchi, gli assassinii, sono la tragica conseguenza dell’aver demonizzato chiunque non sia d’accordo con noi.
E poi punta il dito contro, cito, la “sinistra radicale” che per anni ha paragonato persone come Kirk a dei nazisti, al peggio del peggio. Trump infine conclude dicendo che questa retorica è direttamente responsabile per il terrorismo che c’è oggi negli Stati Uniti, che va fermato.
Prima di andare avanti, di analizzare il messaggio di Trump e di provare a capire quando e come la violenza politica è stata così normalizzata nella società e nella cultura statunitense, apro un secondo una parentesi su Kirk e il rapporto con Trump e tutto il mondo Maga. L’abbiamo detto: Kirk era uno dei più noti attivisti, influencer e podcaster di destra. Che negli anni ha interiorizzato e anche modellato l’ideologia del Make America Great Again, del trumpismo, soprattutto per i più giovani. Ne ha convinti in massa a votare per Trump, anche se dopo la vittoria non ha preteso nessun posto per sé, all’interno dell’amministrazione. Il New York Times oggi ha scritto che la sua ambizione era più alta: era quella di cambiare e plasmare il partito Repubblicano, i media di destra, l’intera politica statunitense.
Kirk, con Turning Point, stava già avendo successo nel suo obiettivo, almeno nel campo mediatico. I suoi dibattiti nelle università, in cui di fatto veniva messa in scena questa guerra tra culture – il politicamente corretto e il populismo di destra – sono diventati incredibilmente popolari negli anni. In questi dibattiti ha sostenuto posizioni quantomeno discutibili, sulle donne, sull’islam, sulle persone transgender. Però più queste erano estreme, più la fanbase lo esaltava. E nel contempo, questa fanbase cresceva: milioni e milioni di follower sulle varie piattaforme.
Insomma, era un personaggio decisamente di spicco, estremamente popolare. Che ha finito per diventare essenziale per il movimento Maga, per la base giovanile a sostegno di Trump.
E qui torniamo al presidente e al messaggio che ha rivolto a tutti gli americani dopo l’attentato a Kirk. Trump si è rivolto a tutti in questo appello a fermare la violenza politica, sì, ma ha anche detto espressamente che è una parte a essere responsabile per la dilagante violenza politica. Che lo ha anche riguardato in prima persona, tra l’altro, con l’attentato dell’anno scorso durante la campagna elettorale in Pennsylvania. Ma questa spirale – a cui si sta assistendo da anni negli Stati Uniti, cominciata con quell’assalto al Campidoglio il 6 gennaio 2021, da parte dei sostenitori di Trump che non volevano accettare la sua sconfitta alle elezioni – riguarda tutto lo spettro politico. Non ci sono stati solo l’omicidio di Kirk e l’attentato fallito a Trump. C’è stato anche l’attentato in cui è stata uccisa una deputata statale democratica del Minnesota, insieme a suo marito. In quella stessa occasione è rimasto ferito anche un senatore democratico. C’è stato poi l’incendio alla residenza del governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, sempre un democratico. Anche l’omicidio del ceo di United Healthcare, freddato per strada da Luigi Mangione, potremmo definirlo un atto di violenza politca.
Insomma, questo per dire che è un problema trasversale, che mostra quanto la violenza politica sia normalizzata. Oggi è uscito un articolo sul New York Times che spiegava come sempre più persone ormai accettino, senza farsi troppe domande, che la violenza sia un mezzo per perseguire fini politici. Che è proprio un ossimoro, nel senso che la politica dovrebbe – sottolineo, dovrebbe – essere uno strumento per risolvere i conflitti attraverso il dialogo, il confronto.
Il problema forse è che negli ultimi anni la politica americana ha accolto a braccia aperte narrative violente, le ha fatte sue sdoganandole come legittime posizioni politiche e ideologiche. Retoriche che comprimono lo spazio di libertà e di autodeterminazione delle minoranze, che siano le donne o gli immigrati, la comunità Lgbtq+ o chiunque non si incastri perfettamente nei modelli sociali e culturali della destra. Si grida alla dittatura del politicamente corretto, al totalitarismo dei progressisti, si cercano nemici nell’altro e si alza il livello dello scontro per un proprio tornaconto in termini di consenso elettorale.
In queste ore, dopo l’omicidio di Kirk, sta girando molto un suo video in cui prendeva posizione sul tema delle armi da fuoco negli Stati Uniti, che sappiamo essere estremamente complesso e problematico. Lui però semplificava, in ottica puramente utilitaristica diceva che alcune vittime all’anno sono un costo accettabile, che gli Stati Uniti possono permettersi in nome del Secondo Emendamento della Costituzione, cioè quello che sancisce il diritto dei cittadini a detenere delle armi. Di base Kirk sosteneva che un cittadino bene armato fosse una garanzia alla libertà nel Paese e che i morti fossero un prezzo accettabile da pagare.
È matematico che dopo il suo terribile omicidio influencer e community di estrema destra gridino alla vendetta, sanciscano che il Paese in guerra. Tutto questo non si fermerà se non si condanna la violenza. E non solo quella più esplicita e brutale, quella che ha ucciso Kirk e che va condannata e contrastata in tutti i modi. Ma anche la violenza nei discorsi politici, nel dibattito culturale, la violenza sociale.
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