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C’è un’immagine che racchiude molto bene la trasformazione di al Sharaa. A settembre, quando ha tenuto il suo discorso davanti all’Assemblea delle Nazioni Unite, al Sharaa è stato fotografato mentre parlava con un altro uomo. Quell’uomo era David Petraeus, l’ex capo della Cia che molti anni prima lo aveva sbattuto a Camp Bucca, la prigione di massima sicurezza statunitense in Iraq. Non è l’unica immagine di questo tipo: ci sono i video di al Sharaa che gioca a basket nel cortile della Casa Bianca con alcuni funzionari americani, lui nello Studio Ovale che stringe la mano a Trump, un ex affiliato di Al Qaeda nell’ufficio del presidente dopo l’11 settembre. Sono tutte immagini che raccontano la parabola di quest’uomo, che ora vediamo in giacca e cravatta, ma che fino all’anno prima eravamo abituati a vedere nei panni del jihadista, con l’unifome mimetica, il drappo bianco attorno alla testa, la barba lunga.
Prima era conosciuto come al Jolani, il capo del gruppo ribelle islamista Hayat Tahrir al Sham, quella milizia che un anno fa ha guidato l’insurrezione che ha posto fine al regime di Bashar Al Assad.
Dalla guerra in Iraq con Al Qaeda agli scontri interni con l’Isis
Oltre vent’anni fa, all’invasione dell’Iraq, al Jolani aveva deciso di andare nel Paese per combattere contro i militari statunitensi, come fecero molti altri combattenti di Al Qaeda. Era stato fatto prigioniero e aveva passato circa un anno a Camp BUcca, il campo di detenzione creato dagli americani. Lo stesso posto dove era finito anche Abu Bakr al Baghdadi, il capo dello Stato islamico. Proprio lui, anni più tardi, aveva dato ad al Jolani il compito di espandere il Califfato in Siria. Cosa che lui fece, sfruttando il caos della guerra civile. Però non chiamava sé stesso e i suoi uomini come dei combattenti dell’Isis, aveva dato al gruppo il nome di Jabhat al Nusra, che in arabo significa “il fronte del supporto”. E piano piano si arrivò alla scissione de facto con l’Isis. E iniziarono anche ad emergere le ambizioni personali di Al Jolani, così come le sue capacità: quelle di un leader pragmatico e astuto.
Il suo gruppo diventava sempre più un problema per l’Isis e Al Qaeda e i contrasti, la lotta di potere interna, iniziò anche a tradursi in uccisioni e attentati contro gli ex alleati. E questo sicuramente lo ha anche aiutato nel presentarsi al mondo occidentale come un leader moderato, che ha fatto la sua parte nel combattere le frange estremiste. Ma anche questa sua sfaccettatura va calata nel contesto: non parliamo di correnti politiche in uno scenario democratico, al Jolani era e resta un islamista radicale, un uomo che rimane ancorato alla sharia, a un’ideologia precisa.
Ma sicuramente ci sono state delle svolte pragmatiche, che sono state fondamentali nella sua ascesa a leader riconosciuto come tale anche dall’Occidente.
La presa di Damasco
Un anno fa al Jolani e i suoi entravano a Damasco, mettendo in fuga Assad. Al Jolani diventava al Sharaa, una vera e propria operazione di rebranding politico, e iniziava il percorso di costruzione della nuova Siria. Un percorso difficile, che deve fare i conti con la frammentazione politica e territoriale di un Paese che è stato martoriato da anni e anni di guerra civile. Ci sono ingerenze straniere, tensioni e lotte per il potere locale.
Solo un esempio: quest’estate una provincia nel sud della Siria è stata teatro di una raffica di violenze tra la minoranza drusa, sostenuta e difesa da Israele, e dei gruppi beduini sunniti, che ha fatto centinaia di morti. Questi episodi hanno mostrato tutta la debolezza del governo di al Sharaa nel mantenere l’ordine, nell’unificare il territorio e controllare le faide tra i diversi gruppi che abitano il Paese. E ovviamente, ha anche sottolineato la scomoda ingerenza dei vicini israeliani.
Israele e il pragmatismo politico di al Sharaa
Nei confronti di Israele, al Shara sta dimostrando tutto il suo pragmatismo politico, evitando di reagire di fronte a incursioni, attacchi e operazioni sul suo territorio. Rispondere vorrebbe dire mettere in una posizione complicata gli Stati Uniti, che invece hanno un progetto ambizioso sulla nuova Siria.
L’incontro tra al Sharaa e Donald Trump alla Casa Bianca è stato davvero storico: è un aggettivo spesso inflazionato, ma questa volta è calzato a pennello. È stato un incontro storico non solo perché al Sharaa è il primo presidente siriano a mettere piede nello Studio Ovale, ma anche perché si è trattato di un ex jihadista, un uomo che un tempo era affiliato di Al Qaeda, che ha combattuto contro gli americani in Iraq, dopo l’attacco alle torri gemelle. Un uomo che, fino a un anno fa, aveva in testa una taglia da dieci milioni di euro dell’FBI.
Cosa vogliono gli Stati Uniti
Appena qualche giorno prima di quell’incontro l’amministrazione Trump aveva tolto al Sharaa dalla lista dei terroristi e quello è stato solo il primo passo verso una normalizzazione dei rapporti con la Siria che entrambe le parti stanno cercando. Da un lato al Sharaa ha potuto portare a casa un grande successo, perché è riuscito a far togliere a Washington gran parte delle sanzioni che colpivano il suo Paese. Dall’altro Trump prosegue il suo percorso che lo vede come una sorta di deus ex machina del Medio Oriente: vuole ingaggiare il leader siriano per ampliare la coalizione anti-Isis, per rafforzare la lotta contro il gruppo terroristico, ma vorrebbe anche includere il Paese negli accordi di Abramo.
Vorrebbe, cioè, che Damasco facesse parte di quei Paesi arabi che hanno normalizzato e istituito relazioni diplomatiche con Israele, aumentando così la stabilità nella regione. Sarebbe una svolta storica, visto che sotto Assad la Siria è sempre stata un’alleata del peggior nemico di Israele, cioè l’Iran. Con il cambio di leadership invece, il Paese può essere una pedina importante, nello scacchiere mediorientale che gli Stati Uniti vorrebbero controllare, per ridimensionare l’influenza di Theran, ma anche per tagliare i corridoi di armi verso, ad esempio, Hezbollah in Libano.
Gli equilibri sono precari, è probabilmente ancora presto per dire come stanno andando i piani statunitensi. Ma a proposito di Assad. Che fine ha fatto il dittatore siriano?
Quando al Sharaa è entrato a Damasco con i suoi uomini, prendendo il potere, Assad è fuggito in Russia, dal suo alleato personale: Putin. Il nuovo leader siriano, dando ancora una volta prova del suo pragmatismo politico, tra l’altro ha incontrato il presidente russo a Mosca, per assicurarsi buone relazioni con il Cremlino nonostante l’appoggio all’ex dittatore. Avrebbe anche chiesto il ritorno di Assad in Siria, ma questo non è accaduto.
Assad continua a vivere in Russia, anche se si sa pochissimo della sua nuova vita. Vivrebbe proprio a Mosca, dove la sua famiglia possiede circa venti lussuosi appartamenti in un grattacielo. Passerebbe qui la maggior parte del suo tempo, giocando a videogiochi online.
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