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Piano Juncker: choc positivo per l’economia o mandrakata?

Sarà davvero uno “chock positivo” per irrobustire la fragile ripresa europea o si rivelerà una “mandrakata”? Aziende ed economisti sottolineano i punti deboli del progetto, mentre la politica applaude. Proviamo a capire cosa possiamo aspettarci.
A cura di Luca Spoldi
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Eran trecento (anzi trecentoquindici), parevano freschi e solidi, ma son spariti lungo la via come in molti per la verità prevedevano. I miliardi del famoso (e finora fumoso) “piano Junckers”, ai quali anche il premier italiano Matteo Renzi sembrava guardare per dare una scossa ad un’economia che a furia di salassi fiscali, scarsa abitudine alla concorrenza e modesto credito sta aprendo un gap negativo sempre più marcato col resto dell’Europa, saranno in realtà solo ventuno, ancora meno di quanto previsto. Come si arriva allora da 21 a 315 miliardi e come si può “mandare ai cittadini europei e al resto del mondo un messaggio: l’Europa è tornata in affari” come ha dichiarato lo stesso ex premier del Lussemburgo, poco o nulla impressionato per ora dal clamore mediatico dello scandalo LuxLeak, attuale presidente della Commissione Ue?

Mettetevi comodi e prendete carta e penna, cerchiamo di capirlo e di capire se e quanti di questi miliardi arriveranno mai in Italia, che da parte sua finora i fondi europei ha dimostrato di saperli usare poco e male, tanto da aver dovuto attendere l’ultimo giorno disponibile (il 14 novembre scorso) per inviare a Bruxelles le proprie proposte d’investimento per il triennio 2015-2017 (per complessivi 40 miliardi, segnatevi la cifra perché sarà interessante vedere quanti progetti saranno effettivamente approvati e quanti fondi saranno utilizzati e per fare cosa). Dei 21 miliardi di fondi pubblici europei a partire dai quali Junckers promette, spera o sogna (scegliete voi il verbo che preferite) di arrivare a mobilitare risorse per complessivi 315 miliardi, la maggior parte, 16 miliardi fanno riferimento a risorse già esistenti e solo 5 miliardi sono nuovi finanziamenti concessi dalla Bei.

L’idea è di creare un nuovo fondo europeo per gli investimenti strategici (European Fund for Strategic Investments o Efsi), finanziato appunto per 5 miliardi dalla Bei e per 8 miliardi da garanzie di fondi europei preesistenti: 3,3 miliardi dal fondo Connecting Europe Facility, 2,7 miliardi dal fondo di ricerca europea Horizon 2020 e 2 miliardi attinti dal cosiddetto “budget margin”, ossia i fondi non utilizzati, del bilancio Ue. Le garanzie così fornite saranno strutturate in modo da attivare risorse complessivamente pari al doppio del loro importo nominale, sicché ai 5 miliardi di mezzi “freschi” forniti dalla Bei si aggiungerebbero in tutto 16 miliardi da parte delle istituzioni europee coinvolte. Fin qui siamo ancora nel campo del denaro pubblico, con un “rischio d’impresa” che ricadrebbe sui contribuenti europei, evidentemente in proporzione alla partecipazione di ciascuno stato membro al bilancio Ue o, per dirla in altro modo, si tratterebbe di soldi già stanziati dai singoli stati membri (Italia compresa) e dunque prelevati dalle tasche dei cittadini europei e destinati a ritornare in circolazione per sostenere la crescita europea.

Ora viene il bello (o il brutto, a seconda dei punti di vista): questi fondi verranno utilizzati con un “effetto leva” di 15 volte, ossia per ogni euro pubblico dovranno essere investiti 15 euro da parte di aziende private (che da parte loro hanno già fatto sapere cosa ritengono necessario per tornare a investire). Dei 315 miliardi di “investimenti” del piano Junckers 294 miliardi dovranno dunque essere trovati nei bilanci di aziende private, che dovranno essere convinte che valga la pena effettuare tali investimenti, ipotesi non molto probabile in paesi come l’Italia che continuano a soffrire di una crisi da domanda (anche a causa delle ristrettezze imposte dalla “cura tedesca” oltre che dai limiti culturali, demografici, burocratici, dal peso della criminalità, dalle corruzione e dalla concorrenza sleale del “sommerso”).

Ma ammesso e non concesso che una leva di 15 volte sia raggiungibile (nelle scorse settimane si era parlato di un effetto leva di sole 10 volte e già in molti avevano espresso dubbi) cosa succederebbe se uno o più stati (magari la Germania) non volessero prendere parte al nuovo Efsi, visto che la partecipazione sarà su base volontaria e non obbligatoria? O se condizioneranno (magari l’Italia o la Francia) la propria partecipazione al nuovo fondo alla possibilità di non tener conto dei relativi esborsi (che diversamente rappresentarebbero spesa pubblica aggiuntiva) nel Patto di Stabilità? Difficile pensare che in quel caso si riesca davvero ad attivare 315 miliardi di euro e difficile pensare che le risorse, che debbono comunque essere divise tra tutti i partecipanti all’Unione europea (ventotto paesi) e che verranno spesi nell’arco di un triennio, possano centrare gli “ambiziosi” obiettivi che ci si è prefissi.

La Commissione Ue conta infatti grazie al suo piano di incrementare il Pil potenziale europeo di 330-410 miliardi di euro a lungo termine (tenendo conto anche degli ulteriori investimenti privati che i progetti finanziati attiverebbero) e di creare di 1-1,3 milione di posti di lavoro nell’arco del triennio. In ogni caso i progetti presentati dagli stati europei sono oltre 1.800 (dei quali appunto 400 italiani) per richieste complessive pari a 1.100 miliardi, ossia 52 volte le risorse pubbliche messe a disposizione, o 3,5 volte le risorse “complessive” che Juncker spera di veder attivate grazie alla sua proposta, non a caso sarebbe già partita una prima scrematura con l’obiettivo di arrivare ad una lista definitiva con l’obiettivo di ripartire le risorse per 240 miliardi di euro a favore di progetti “strategici” e per 75 miliardi per le piccole e medie imprese. Inoltre gli 1-1,3 milioni di nuovi posti di lavoro rappresenterebbero poco più del 5% dei 24,5 milioni di disoccupati attualmente esistenti nei ventotto stati dell'Unione Europea.

Numeri che per un paese come l’Italia che vede il 70% abbondante del proprio Pil realizzato da Pmi e 3,23 milioni di disoccupati (il 12,6% della popolazione attiva, di cui quasi 700 mila giovani di 18-24 anni) non sembrano esattamente in grado di dare quello “chock positivo” necessario ad uscire dalla crisi di cui ha parlato il ministro dell’Economia e finanze italiano, Pier Carlo Padoan. Per uscire dalla crisi all’Europa e in particolare all’Italia servono idee, coraggio e politiche adeguate, oltre alle necessarie risorse e il piano Juncker sembra sperare molto nelle prime due, pare anche difettare delle seconde. Piuttosto che niente meglio piuttosto, verrebbe da dire, ma gli italiani farebbero bene a non illudersi troppo: la ripresa, se e quando verrà, sarà frutto di riforme strutturali che in Italia non si fanno da decenni e anche l’Ocse continua a suggerirci di varare, non della “cura tedesca” né del “piano Juncker”. Con buona pace di chi per tirare a campare deve inventarsi ogni volta uno slogan nuovo e avvincente con cui tranquillizzare almeno i propri elettori, peraltro sempre più sfiduciati come dimostra l’elevato astensionismo delle regionali in Calabria ed Emilia Romagna domenica scorsa.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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