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Petrolio ancora in calo e Saipem si schianta in borsa

Per il miliardario saudita Alwaleed il petrolio non tornerà più sopra i 100 dollari al barile, affermazione singolare dato che produttori come Russia, Iran e Arabia Saudita registrano costi di estrazione non inferiori a tale soglia. Nel frattempo a pagare dazio è Saipem che in borsa ormai vale la metà di un anno fa…
A cura di Luca Spoldi
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Col petrolio ai minimi degli ultimi 5 anni e mezzo, sui 46 dollari al barile per quanto riguarda il Wti texano a sui 47,4 dollari al barile per quanto riguarda il Brent del Mare del Nord, il titolo Saipem, società del gruppo Eni che si occupa di attività ingegneristiche collegate all’esplorazione, estrazione e dispacciamento di petrolio e gas naturale, ha registrato oggi un autentico collasso in borsa, perdendo in una seduta il 10% del proprio valore e chiudendo su valori pari alla metà di quelli a cui oscillava giusto un anno fa. Due anni or sono, prima che la società iniziasse ad emettere dei “profit warning” e con il petrolio che oscillava tra i 90 e i 100 dollari al barile (per poi mantenersi tra i 100 e i 110 dollari per gran parte del resto dell’anno); ancora prima, nel luglio del 2008, quando il Pil cinese ancora cresceva attorno al 10% annualizzato, erano stati toccati anche i 147 dollari.

Ora tutto sembra cambiato: in una intervista a Usa Today il principe multimiliardario saudita Alwaleed bin Talal dall’alto dei suoi 20 miliardi di dollari di patrimonio personale, solo in parte legati ad investimenti nel settore petrolifero e molto di più in quelli dei media (per molti anni è stato proprietario di un pacchetto di azioni Mediaset attorno al 2,7% del capitale), ha dichiarato di non ritenere possibile un ritorno dei prezzi sopra i 100 dollari al barile, un livello che solo lo scorso luglio il ministro del petrolio saudita aveva giudicato come “un buon prezzo” per produttori e consumatori e che certo avrebbe fatto felici molte società del settore, non solo in Medio Oriente. Le principali vittime della guerra di prezzo combattuta senza alcuna esitazione dall’Arabia Saudita sono infatti finora la Russia e i produttori americani di “shale oil”, vale a dire i due principali concorrenti dell’Arabia Saudita sul mercato petrolifero mondiale.

Eppure l’affermazione di Alwaleed lascia perplesso più di un analista perché, come già ebbi modo di ricordare, la stessa Arabia Saudita produce vede un punto di pareggio vicino ai 106 dollari al barile, la Russia sui 102 dollari, i produttori “storici” statunitensi del Texas, dell’Oklahoma, della Louisiana, del Kansas e dell’Arkansas attorno ai 75 dollari al barile. Il che significa che, mentre Riad può sopportare una lunga e logorante guerra di trincea, forte dei suoi circa 780 miliardi di dollari di riserve accumulate da decenni di robusti profitti (ed in parte può farlo anche la Russia, che ha riserve in valuta straniera per circa 745 miliardi di dollari), molti produttori marginali non potranno fare altrettanto negli Stati Uniti e il rischio, concreto, è che si possa verificare una serie di fallimenti a catena di società petrolifere e banche locali, a partire dal Texas, come già si vide alla fine degli anni Ottanta.

Alwaleed trova “artificiale, non corretto” un prezzo di oltre 100 dollari al barile del petrolio, ma qualcosa non torna: se è vera la tesi del principe, alla lunga la crescita della domanda mondiale, che prosegue con costanza da anni salvo qualche rallentamento ciclico, come ad esempio nel 2009 a seguito della crisi economico-finanziaria mondiale, dovrebbe premiare proprio i produttori di shale oil a stelle e strisce (che estraggono petrolio tra i 53 e i 78 dollari al barile), perché ad uscire dal mercato sarebbero altri concorrenti, dall’Iran (che ha un punto di pareggio medio attorno ai 130 dollari al barile e che storicamente è in lotta con l’Arabia Saudita per il predominio politico ed economico del Medio Oriente) al Venezuela (che da tempo ha pessimi rapporti con gli Stati Uniti ed estrae mediamente a 117 dollari al barile) e fin qui potrebbe fare gioco tanto agli arabi quanto agli americani.

Ma poi a fallire sarebbero appunto, come detto, i produttori texani e le loro banche finanziatrici e questo fa certamente molto meno piacere a una parte dell’establishment statunitense, in particolare di matrice repubblicana. Al di là di eventuali interventi "politici", la selezione naturale riducendo la produzione a frotne di una domanda in crescita dovrebbe far poi risalire le quotazioni, anche se certo non a breve termine: Societe Generale ha anzi tagliato la propria previsione sulle quotazioni del Wti per l'anno in corso a 51 dollari il barile e quelle sul Brent a 55 dollari, mentre Goldman Sachs ora parla per il Wti di 47,15 dollari nel 2015  e di 65 dollari per l'anno successivo.

Semmai dire “non vedremo mai più il petrolio a 100 dollari al barile significa sottintendere che la stessa Arabia Saudita sposti il focus del proprio interesse economico su altre attività, e sprattutto sottinitende mettere in conto che ci sarà un riequilibrio molto marcato della crescita mondiale ai danni dei paesi emergenti (che tendenzialmente sono produttori ed esportatori di materie prime, le cui quotazioni sono tutte in calo al momento), cosa che rischia di avere un impatto “di seconda sponda” anche per i paesi sviluppati meno positivo di quello che potrebbe sembrare di primo acchito. Già ai prezzi della scorsa settimana, dunque più vicini ai 50 dollari al barile che ai 45-40 dollari al barile che ora qualche trader non esclude possano essere toccati (e mantenuti per alcune settimane o mesi) si stimava che circa 1.500 miliardi di dollari di valore si trasferirebbe dalle casse dei vari produttori a quelle dei consumatori (attraverso un risparmio che non è detto si traduca poi automaticamente in consumi, come sta scoprendo suo malgrado il governo Renzi in Italia).

Attraverso i differenti impatti sui bilanci delle singole società coinvolte si rischierà di vedere anche un calo degli utili per azione di listini come Wall Street (ma in parte anche Parigi o Londra e ovviamente Milano) dove sono quotate le maggiori industrie mondiali del comparto, prima che i benefici di una deflazione da costi siano percepibili. Insomma, qualche ulteriore scossone, anche violento, è prevedibile sia per i singoli titoli, come Saipem ma non solo, sia per interi settori e mercati, ma alla fine proprio l’efficienza di questi ultimi, quando non ingabbiata da camicie di forza rappresentate da prezzi regolamentati o pesanti componenti fiscali, dovrebbero consentire una stabilizzazione dei prezzi prima e un successivo rialzo degli stessi poi. Senza contare, poi, che la tecnologia per produrre shale oil e shale gas è relativamente recente e potrebbe registrare, proprio a causa della pressione dei prezzi, ulteriori sviluppi negli anni a venire, in grado di riaprire giochi che le quotazioni attuali paiono nuovamente stare chiudendo, con già le prime disdette annunciate di contratti di esplorazione e sfruttamento di giacimenti relativamente costosi. Alla fine all'analista viene in mente una domandina maliziosa: il principe Alweleed vorrà mica accumulare azioni Saipem (o di qualsiasi altra "major" petrolifera) approfittando di prezzi da saldo?

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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