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Opinioni

Per uscire dalla crisi servono i giovani

Un’analisi di Alphaville (blog del Financial Times) mette a nudo la debolezza del settore bancario italiano, che rischia di ripercuotersi sull’economia. Per uscire dalla crisi più che l’austerity servono idee ed entusiasmo.
A cura di Luca Spoldi
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Corrado Passera: nessuna ideona

Le banche italiane hanno meno munizioni di quelle spagnole. Che dalla crisi non usciremo meglio di altri lo sostengo, come molti altri miei più autorevoli colleghi, da tempo. Che il settore bancario in particolare sia meno solido di quel che si vuole lo dicono anche con una ricchezza di cifre e dettagli che lascia poco all’immaginazione gli analisti di Alphaville, il blog finanziario del gruppo Financial Times, i quali citando dati freschi di stampa della Banca di Spagna notano come a fine marzo non solo i finanziamenti a lungo termine erogati dalla Bce alle banche spagnole tramite la Ltro fossero raddoppiati (da 152,3 a 315,3 miliardi complessivi), ma fossero saliti a 88,7 miliardi (dai 19,7 miliardi di un mese prima) anche i depositi in contanti che le banche spagnole detenevano presso la stessa Bce e che dunque sono ancora a disposizione per eventuali riacquisti di proprie obbligazioni nell’ambito di operazioni di “liability management” simili a quelle già compiute da alcune banche italiane, piuttosto che per rinnovare o sottoscrivere nuovi titoli di stato del proprio paese, fornendo così una “coperta” al proprio emittente sovrano che potrebbe rivelarsi preziosa se, come sembra, le incertezze macroeconomiche e gli effetti negativi delle manovre correttive torneranno a far prediligere agli investitori esteri altri strumenti in cui depositare la propria liquidità. Le banche italiane, invece, notano sempre gli esperti di Alphaville citando questa volta dati Banca d’Italia, hanno visto aumentare i depositi solo da 1,5 a 9,9 miliardi di euro, mentre hanno visto passare da 140 a 267,6 miliardi di euro i prestiti a lungo termine legati alle Ltro di Eurotower. Il che significa che in previsione dell’emissione di 275 miliardi di euro di titoli di stato italiani da qui a fine anno (dopo che nei primi tre mesi dell’anno sono già stati emessi 175 miliardi di euro tra Bot e Btp, 26 miliardi più degli importi in scadenza, arrivando a coprire il 39% della raccolta prevista per l’intero 2012) le banche italiane potranno aiutare meno di quelle spagnole il proprio emittente sovrano, che dunque rischia di rimanere ostaggio dei mercati ancora una volta, al di là di meriti o demeriti propri e nonostante la buona notizia del calo del debito pubblico in valore assoluto (dai 1.934,965 miliardi di euro di fine gennaio a 1.928,211 miliardi a fine febbraio).

Per stare tranquilli servirebbero almeno altri 110 miliardi. Per essere precisi secondo gli analisti di Jp Morgan i 60 miliardi di euro che dovrebbero ancora essere disponibili per le banche italiane possono bastare ad assorbire emissioni nette di titoli di stato italiani (dunque oltre i rinnovi dei titoli già in circolazione) per 20 miliardi di euro, ma solo il 60% circa dei 50 miliardi di euro di titoli in scadenza finora detenuti da investitori esteri, mentre non vi sarebbero fondi per riassorbire il debito bancario in scadenza (40 miliardi da qui a fine anno) né quello detenuto da investitori italiani non bancari (altri 50 miliardi), che dunque occorre sperare siano “convinti” a reinvestire i propri capitali in tali asset (sopportando ogni rischio relativo, a partire da nuovi rialzi dei tassi e un riallargamento dello spread rispetto ai Bund decennali, nel frattempo tornato attorno al 3,88%-3,90% rispetto al 2,78% toccato lo scorso 19 marzo). In tutto si tratta di 110 miliardi di euro di potenziali flussi in uscita dai titoli di stato italiani che rischiano di avere effetti pesanti sulle quotazioni dei titoli, anche se finora tutto è andato per il meglio, sia pure con un riposizionamento del debito pubblico maggiormente su titoli a breve termine, passati dai 149,2 miliardi di fine gennaio a 157,7 miliardi a fine marzo, rispetto ai titoli a medio e lungo termine, calati da 1.494,216 a 1.479,043 miliardi, cosa che aumenta i rischi di “roll over” (ossia di rinnovo dei titoli in scadenza). Non vale forse neppure più la pena di notare, poi, che se anche trovassero questi 110 miliardi di euro le banche italiane proprio in quanto impegnate a “garantire” il debito pubblico tricolore non potrebbero che continuare a stringere i cordoni del credito nei confronti di imprese  famiglie, che dunque dovranno affrontare ancora molti mesi di “deleveraging” con continue richieste di rientro da precedenti posizioni debitorie, riduzioni dei fidi e aumento di spread e costi per gli scoperti. Si tratta del resto di null’altro se non degli aspetti “pro-ciclici” (e quindi in questo caso fortemente negativi) delle manovre correttive “auto inflittesi” dalle autorità dei singoli stati membri dell’Unione Europea sotto la spinta del “furore sacro” della Germania, unico paese che sembra prendere fin troppo a cuore il rischio di una distruzione dell’euro che avrebbe effetti drammatici, ma che richiederebbe più che inutilmente “virtuosi” piani di austerity una rivoluzione politica che dia da un lato vita a un coordinamento democratico delle politiche monetarie e fiscali dei vari paesi membri, coniugandole con una necessaria solidarietà se non altro per evitare che la strada costellata di buone intenzioni del “fiscal pact” conduca all’inferno della depressione non solo Grecia, Portogallo e Irlanda ma anche Spagna e Italia, con tutti i rischi del caso non solamente per i paesi citati ma anche per tutti i loro partner commerciali e finanziatori.

La differenza la faranno i giovani? Ciò premesso e sottoscritto, resto convinto che l’eventuale futura chiave di svolta della crisi non passerà da una classe politica e imprenditoriale dimostratesi inadeguate, corrette e distruttrici di valore a tutti i livelli, europei, nazionali e locali. Siamo in questa crisi non perché qualcuno ci ha scagliato qui dal cielo, bensì perché per anni non siamo stati in grado di gestire al meglio la cosa pubblica, investire con saggezza le risorse private, spendere oculatamente i nostri redditi, aggiornarci costantemente sia a livello di competenze individuali sia di modelli organizzativi e produttivi, nonché di distribuzione e perequazione del reddito. Dopo mesi, se non anni, passati ad analizzare, commentare, suggerire, io stesso sento del tutto inutile il mio apporto in termini di creazione di un qualsivoglia valore per questo paese. E’ tempo di fare più che di dire o analizzare, di agire più che di riflettere o filosofeggiare, di trovare soluzioni e indicare come possano essere perseguite più che dilettarsi in esercizi (corretti ma sterili) sull’attribuzione di colpe a banche, imprese e mondo politico. Per questo sono contento quando, da Napoli dove lavoro con la mia società e scrivo da una dozzina d’anni (dopo una vita passata prima a studiare e poi a lavorare presso importanti intermediari finanziari a Milano), vedo eventi come TEDex Napoli catalizzare l’attenzione di giovani imprenditori, ricercatori e potenziali finanziatori attorno a nuove idee di business. Per questo partecipo sempre con piacere a incontri come quelli portati avanti dagli Indigeni Digitali di Fabio Lalli, o a barcamp come Vesuviocamp, a convegni come quelli in cui ci si interroga sulle nuove opportunità di business offerte dalle tecnologie digitali in tutti i campi, dalla produzione alla distribuzione di beni e servizi. I giovani (e le donne) sono ad oggi i maggiormente colpiti da una crisi che si continua ad affrontare utilizzando paradigmi e formule interpretative del recente passato, ma saranno proprio i giovani, se riusciranno a conquistare uno spazio, a poter far ripartire l’economia e salvare il paese. Non saranno i grandi vecchi gruppi come Fiat (che giustamente, dal suo punto di vista, delocalizza produzioni ad elevata intensità di lavoro come quelle automobilistiche in paesi come la Serbia dove il lavoro costa poco, gli impianti meno che in Italia e il fisco non è così opprimente) né le vecchie banche come UniCredit o Intesa Sanpaolo, né tantomeno vecchi politici e vecchi tecnici come Romano Prodi, Silvio Berlusconi, Mario Monti o persino Corrado Passera a trovare “l’ideona” che al momento, come ha desolatamente confermato lo stesso ministro dello Sviluppo Economico, “nessuno ha”. Non ce la possono avere perché sono personaggi del nostro passato, della cui esperienza e rete di relazioni il paese deve certamente fare tesoro, ma che non saranno in grado di disegnarne il futuro. E che quindi sarebbe bene iniziassero a pensare di lasciar spazio in tutti i campi ai loro futuri eredi, per il bene del paese (e quindi di tutti).

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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