Iscriviti a Streghe.
Entra a far parte del nostro Osservatorio sul patriarcato

Ciao, eccoci per una nuova puntata di ‘Streghe’. Qualche settimana fa la rivista scientifica The Lancet ha pubblicato un editoriale sul parto, parlando del problema dell’ipermedicalizzazione da un lato, e di ultras (non ha usato chiaramente questa parola, è una declinazione poetica mia) del parto ‘naturale’ dall’altro. The Lancet individua queste come due ‘ideologie’ contrapposte che danneggiano le donne in un momento molto complesso della loro esistenza, senza fare quello che banalmente risolverebbe gran parte delle cose: ascoltarle e rispettarle.
Durante la gravidanza, mi sono ritrovata a discutere del parto innumerevoli volte con diverse persone. La maggior parte di loro aveva partorito in ospedale e tutte condividevano un'esperienza comune: un parto eccessivamente medicalizzato. Praticamente a tutte è stata eseguita la manovra di Kristeller (pressione manuale esercitata di peso sul collo dell'utero durante il parto), in molte hanno subito l'applicazione della ventosa, e a tante sono state scollate le membrane o rotte le acque senza preavviso. La quasi totalità non è stata informata delle procedure mediche adottate, sentendosi ridotte a oggetti nelle mani di ginecologə e ostetricə.
Per Fanpage.it mi sono occupata di violenza ostetrica negli anni passati, e so perfettamente che questi atti rientrano in questa casistica. Mi ha sempre stupito, ad esempio, quanto sia diffusa la manovra di Kristeller. Sebbene formalmente dovrebbe essere impiegata solo in situazioni estreme a causa dei potenziali rischi per madre e neonatə, in molti ospedali italiani è diventata una prassi comune. Non mi ha sorpreso, tuttavia, scoprire che è altrettanto comune omettere di registrarla nella cartella medica. È evidente che la pericolosità di questa pratica è ben nota anche al personale sanitario.
Però, mi è capitato di parlare anche con persone che la pensano in modo diametralmente opposto sull'eccessiva medicalizzazione. Una volta, scherzando durante un pranzo con un’amica, ho detto ‘speriamo che la bambina rimane podalica così mi fanno il cesareo’. Mi ha risposto, serissima, che era meglio di no, altrimenti avrei avuto difficoltà a sviluppare una connessione con lei. Sono stata in silenzio alcuni secondi aspettando che ridesse della sua battuta, ho capito che ci credeva, e ho preferito non replicare, nonostante mi sembrasse davvero assurdo che potesse pensare una cosa del genere. Un’altra volta ancora, una mia lontana parente mi disse di informarmi bene per fare un parto naturale nonostante la bimba fosse podalica, perché ‘era meglio’. Quale fosse questo meglio non l’ho mai capito, ma tanto la bambina si è poi girata e i miei sogni di cesareo sono svaniti come quelli di diventare la fidanzata di Leonardo Di Caprio.
Quello del parto iper-medicalizzato è un problema serio. Molte donne raccontano di un parto vissuto come un'esperienza traumatica: non ascoltate durante il travaglio e l'espulsione, sottoposte a procedure invasive senza consenso e trattate con scarsa empatia, o addirittura insultate, dal personale sanitario. Questo atteggiamento di chiusura ha generato in molte pazienti un profondo rancore verso gli operatori e le operatrici.
Ma anche il concetto di parto ‘naturale’ (traduci: doloroso) a ogni costo presenta delle problematiche. Negli ultimi anni si è diffusa l'idea che l'intervento medico debba essere evitato il più possibile, privilegiando il parto vaginale senza anestesia come la scelta migliore. Questa ‘ideologia’ sostiene che il dolore sia gestibile attraverso la preparazione mentale e che sia preferibile partorire in ambienti non ospedalieri, come a casa, immersi nella natura o in luoghi che infondono maggiore comfort. Non fa niente se si aspettano due gemelli, se il feto è podalico, se ci sono rischi di salute: ‘le nostre nonne partorivano così’, perché noi dovremmo andare in ospedale? Forse perché le nostre nonne e i bambini morivano verrebbe da dire, ma andiamo avanti.
Per affrontare il tema di questa puntata, ho scelto di intervistare due figure che negli anni si sono dedicate approfonditamente alla violenza ostetrica e alla maternità: Sasha Damiani, medica anestesista e fondatrice del progetto ‘Mamme a nudo', e Francesca Bubba, scrittrice e attivista.
“Il problema è culturale e The Lancet lo dice chiaramente: nessuno dei due approcci, iper-medicalizzazione o mito del ‘naturale’, si basa davvero su evidenze scientifiche”, spiega Damiani. “Entrambi nascono da visioni ideologiche e sono, in modi diversi, infantilizzanti: il controllo non è di chi partorisce. Da un lato, l’iper-medicalizzazione viene spesso usata più per abitudine o per medicina difensiva, che per rispondere a un reale bisogno clinico o a una richiesta della paziente: manovre, procedure, farmaci imposti unilateralmente (in assenza di condizioni di urgenza che lo giustifichino), senza informare e coinvolgere nel processo decisionale la partoriente. Dall’altro, l’idea che il valore di una donna si misuri nel ‘farcela da sola', come se partorire con il cesareo o usufruire dell'epidurale fosse un fallimento e il ‘buon parto’ fosse quello dei tempi delle nostre bisnonne (quando, ricordiamolo, madre natura faceva sì che madri e neonati avessero spesso complicanze molto gravi, morte inclusa). Lancet, a proposito di questa corrente ideologica, la chiama quella del ‘cosiddetto' parto naturale, perché in realtà è un termine che non vuol dire nulla (naturale per chi?), è riduttivo ed è anche potenzialmente colpevolizzante (naturale come sinonimo di giusto e ‘superiore'). In entrambi gli estremi ideologici, la persona scompare: non interessa più come viva davvero il parto, ma quanto riesca ad aderire a un certo modello. Le conseguenze si vedono: donne che fuggono dagli ospedali per paura di interventi non desiderati, alcune che evitano i controlli in gravidanza e, magari ancora impaurite da esperienze pregresse, preferiscono affidarsi a “coach della gravidanza” (persone senza competenze sanitarie) piuttosto che a medicə e ostetriche. Addirittura alcune di queste figure, molto attive sui social, promuovono il wild birth, ovvero il parto in luoghi remoti, senza alcuna assistenza. Altre ricorrono a soluzioni private e costose, nel tentativo di trovare quello che dovrebbe essere scontato: il rispetto della propria autodeterminazione. Altra conseguenza: moltissime donne che si portano dietro il senso di inadeguatezza per non aver rispettato le aspettative degli altri. Come se la maternità non fosse già abbastanza difficile”.
Come spesso succede, quando uno spazio è vuoto, viene riempito. E non sempre in modo positivo. In questo caso, come anticipato anche da Damiani, da sedicenti ‘guru’, che attraggono le donne spaventate e allontanate da un sistema ospedaliero che le ha deluse e non rispettate. Ne ho parlato con Francesca Bubba, che su queste figure ha scritto diverse inchieste pubblicate su The Post Internazionale, e nel suo libro ‘Preparati a spingere – Essere madri oggi in Italia’.
“Un elemento comune a queste figure è la mancanza di formazione medica – mi spiega – Loro partono da critiche legittime al sistema ospedaliero come l’ipermedicalizzazione o la scarsa empatia, che effettivamente sono un problema: abbiamo infatti spesso parlato di violenza ostetrica negli ambienti ospedalieri. La loro però è un’alternativa costruita non su evidenze scientifiche, ma su una visione ideologica e selettiva della maternità. Molte di queste figure fanno leva sull’insoddisfazione e sulle esperienze traumatiche che le donne hanno vissuto nelle sale parto. Ma invece di rivendicare una medicina più umana, che vada incontro alle esigenze della gravidanza e della maternità, si pongono in radicale opposizione alla medicina stessa, incoraggiando di fatto pratiche non sicure, scoraggiando l’anestesia, e attribuendo al parto senza epidurale un potere mistico”.
Proprio il parto doloroso è un cavallo da battaglia di queste persone, che attribuiscono alla parto analgesia tutta una serie di conseguenze negative sul bambino che non hanno nessuna base scientifica. “Queste guru spesso raccontano che avvalersi dell’epidurale potrebbe compromettere il legame tra madre e figlio – continua Bubba – Ti instillano l’idea che tuo figlio non ti vorrà bene, ed è una cosa di una violenza mostruosa. Molte di loro propongono il parto in casa anche in condizioni mediche sfavorevoli. Con il mio compagno ho seguito un caso per ‘Le Iene’, dove a Rimini un neonato è morto, e si è scoperto che non era stata seguita nessuna procedura per il parto in casa. Purtroppo queste persone si appoggiano a narrazioni pseudo-empatiche, pseudo-femministe, dove la vera madre è quella che soffre con consapevolezza, che partorisce senza interferenze, che accoglie il dolore come sacro. È un modello che propone stereotipi antichi sotto una patina di empowerment, ma che isola le donne e le colpevolizza in caso di scelte diverse. E questa è una forma di violenza ostetrica”.
I consigli di queste guru non sono chiaramente gratis. Tutte rimandano a corsi e siti a pagamento, dove possono essere scaricate guide e lezioni per il pre e post parto. Si tratta di materiale non economico, soprattutto se pensiamo che davanti non abbiamo professioniste qualificate. “Un parto felice, sereno e soprattutto sicuro dovrebbe essere un diritto – precisa Bubba -. E loro effettivamente ne parlano come tale. Ma nella realtà puoi accedervi solo se hai un determinato potere economico. E qui il femminismo mi pare che vada ben crollando”.
“Parto felice, forza interiore, positività, sono i tre punti che queste guru segnalano sempre, e che sono assolutamente fuorvianti, perché rimandano all’idea che chi ha un parto difficile, medicalizzato o traumatico, abbia fallito – sottolinea Bubba – Si ignora la complessità biologica del parto e si ignorano i fattori imprevedibili che possono esserci. Questa narrazione è colpevolizzante, molte donne si sentono inadeguate non perché abbiano fatto qualcosa di sbagliato, ma perché immerse in un modello che santifica un unico modello di maternità, quello ‘naturale’, performativo ed eroico. È una violenza simbolica e sottile ma profondamente permeante”.
Ho chiesto a Damiani come mai il personale sanitario spesso presti poca attenzione alle persone gestanti, sconfinando in comportamenti poco empatici e a volte non rispettosi di chi hanno di fronte.
“Le cause sono diverse – mi dice – La prima è la formazione: nei percorsi universitari e post-laurea manca completamente o quasi un lavoro serio sulla comunicazione, sull’ascolto, sulla gestione del consenso. Si acquisiscono molte competenze, ma manca la più importante: saper essere in relazione. Poi c’è l’organizzazione: turni, carenza di personale, obiettivi di budget che spingono a rispettare delle fantomatiche percentuali, ad esempio ridurre al minimo i cesarei. Numeri che non hanno davvero a che fare con la qualità del vissuto. L'esperienza materna, anche in termini di benessere psicologico a breve, medio e lungo termine, invece non entra nei parametri di valutazione. Infine, e non meno importante, la cultura professionale e dell'intera società, che è ancora fortemente sessista. L’ambiente ospedaliero è spesso segnato da gerarchie pesanti e da un paternalismo sistemico. Non è un caso se, a cadenza regolare, emergono episodi di mediche umiliate, zittite o addirittura molestate dal primario di turno, senza che nessuno intervenga. Se le professioniste non vengono ascoltate o rispettate, è difficile aspettarsi che lo siano le pazienti”.
Anche per Damiani, come per Bubba, è necessario che la medicina cambi, avvicinando le persone piuttosto che allontanarle. Un punto è fondamentale: serve più rispetto per il personale ospedaliero, che spesso lavora su turni massacranti, senza dormire anche per tre giorni di seguito, a causa dei continui tagli al sistema sanitario nazionale. “Serve lavorare su più livelli, e farlo senza alimentare altre polarizzazioni – conclude Damiani – La formazione è essenziale. La verità è che finché resterà un'opzione volontaria, questi temi non entreranno nella cultura organizzativa e continueranno a essere considerati secondari rispetto alle skills tecniche. Ma non basta formare meglio: bisogna anche migliorare le condizioni in cui si lavora e tutelare la salute, fisica e mentale, di chi cura gli altri. Un sistema sotto pressione, dove si devono rispettare tempi, turni e numeri, fatica a lasciare spazio alla qualità relazionale. E poi c’è un enorme lavoro culturale da fare fuori dagli ospedali: più informazione e meno ideologia, rivolta non solo alle donne (e più raramente ai padri, considerati ancora "un aiuto"), ma a tutta la società. Perché il rispetto della persona che partorisce non è un fatto privato: è un tema di salute pubblica. Che una rivista come The Lancet lo scriva è un segnale importante. Perché sposta finalmente la discussione su ciò che conta: non quale parto è ‘giusto’ in assoluto, ma quale è giusto per quella persona, in quel momento della sua vita. Questo dovrebbe essere il centro. Tutto il resto, protocolli, tecniche, visioni, viene dopo. Mi auguro che sia il segno di un cambiamento culturale, magari lento, ma già in atto”.
Mi piacerebbe sapere cosa pensi del contenuto di questa settimana. Se lo ritieni importante, aiutami a diffondere questo lavoro: non solo condividendolo, ma anche parlandone a scuola, in famiglia, con gli amici, sul posto di lavoro. Se hai segnalazioni da fare, vuoi raccontarmi la tua esperienza, o pensi ci sia un argomento su cui è necessario fare luce, scrivimi a streghe@fanpage.it.
Ci sentiamo alla prossima puntata. Ti ricordo che ‘Streghe’ non ha un appuntamento fisso: esce quando serve. E dove serve, noi ci siamo.
Ciao!
Natascia Grbic