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Ottantacinque. Questo il numero delle donne uccise nel 2025 in Italia. Un numero in flessione, certo, ma c’è un altro dato rilevante che va considerato: sempre secondo il rapporto Eures, la quota di femminicidi sul totale degli omicidi resta comunque la più alta mai registrata.

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Questo ci fa cambiare prospettiva: si tratta di dati chiave, che ci dicono molto di questo che non è più un fenomeno, ma una dimensione importante della nostra società. Una società dove gli omicidi complessivi diminuiscono, ma la violenza contro le donne continua a rappresentare una quota rilevante. La matrice di genere, quindi, resiste ai miglioramenti osservati in altri ambiti.

Decine di femminicidi l'anno. Casi che seguiamo sulla stampa, di cui parliamo per alcuni giorni, a volte per qualche settimana, ma che poi finiscono nel dimenticatoio. Ci scordiamo le  storie di queste donne, rimuoviamo chi erano. Per noi rimangono un titolo di giornale. Per chi resta, sono vite devastate e che mai saranno più le stesse. In questo modo, la conta dei femminicidi rischia di diventare un rituale che però serve a poco. Ma così non è e non deve essere: i numeri possono dirci molto di un fenomeno, e possono aiutare ad affrontarlo in modo serio e adeguato. I dati non sono neutri: dipendono da chi li raccoglie, dalle definizioni adottate, da cosa si sceglie di includere e da cosa viene escluso. Non raccontano una realtà oggettiva, ma riflettono priorità politiche, scelte e rapporti di potere.

Ne ho parlato con Donata Columbro, giornalista e autrice del libro ‘Perché contare i femminicidi è un atto politico’. “L’Italia, dal punto di vista dei delitti, è in generale un paese sicuro, in cui gli omicidi diminuiscono ogni anno, ma questo non vale in percentuale per quelli che riguardano le donne. Un dato che Non Una di Meno racconta spesso, anche se non so se abbiano già condotto un’analisi comparativa con l’anno scorso, è l’aumento dei tentati femminicidi. Questo è un elemento interessante. Lo leggono come un dato, tra virgolette, ‘positivo', nel senso che sono omicidi che non sono andati a buon fine. Questo avviene perché intervengono sia una maggiore presa di coscienza della vittima, che in quel momento riesce a salvarsi di più, sia l’intervento delle persone vicine. Ci sono quindi più persone che intervengono per prestare aiuto. Sarebbe fondamentale avere questi dati anche a livello istituzionale, perché noi sui tentati femminicidi non li abbiamo in modo sistematico”.

C’è infatti una questione che spesso è sottovalutata, e che Columbro però affronta nel suo libro. Noi abbiamo il numero di donne uccise in un determinato anno, ma non abbiamo tutta un’altra serie di dati che invece sarebbe buono consultare per studiare soluzioni alla violenza di genere. Ossia: “l’età delle vittime, degli autori, il genere, la relazione tra i due, se la donna era in stato di gravidanza, se si tratta di figlicidi o figli che uccidono le madri e quanto spesso si verifica questa situazione; se dopo l’omicidio l’autore ha commesso suicidio, e quindi se è persistente la volontà di compiere un atto che è distruttivo, ma anche autodistruttivo”.

Oltre al bollettino dell’anno corrente o dell’anno precedente, sarebbe necessario avviare analisi periodiche, sulla scia di quelle fatte dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli omicidi nel 2021, che analizzava le sentenze del 2017-2018. Sarebbe importante avviare un iter perché questo tipo di analisi venga ripetuto ogni due o tre anni, con una sorta di impegno strutturale, in modo da aggiornarle e capire davvero che cosa stiamo facendo bene. Questo è fondamentale, perché altrimenti si rischia di guardare solo ai numeri e dire: ‘Abbiamo dati bassi, quindi possiamo ridurre lo stato di allerta o i fondi, perché stiamo performando bene’. In realtà potrebbe essere che quei numeri siano il risultato di una serie di protocolli e iniziative che funzionano e che quindi andrebbero mantenuti. Per questo tipo di analisi è cruciale. Qualcosa viene fatto dall’ISTAT, che analizza gli omicidi dell’anno precedente, ma non a questo livello di approfondimento, in cui si ricostruisce davvero la vita delle vittime: se avevano parlato con qualcuno della violenza, se avevano chiesto aiuto. Questo tipo di analisi oggi manca. Se vogliamo capire come fermare e diminuire ancora questi numeri, è indispensabile”.

In Italia però, non c’è una banca dati pubblica e accessibile sui femminicidi. I dati vengono sì raccolti, ma non sono poi diffusi. Chi lavora nel campo dell’informazione lo sa: se tu che stai leggendo sei giornalista, sarà capitato anche a te di impazzire cercando dati sulle donne uccise in un determinato anno, perché le cifre cambiano a seconda della fonte consultata e non si riesce mai ad arrivare a un quadro univoco.

Il fatto è che c’è una differenza, perché ovviamente il femminicidio è un fenomeno sociale e dipende anche da che cosa si fa rientrare all’interno della categoria – spiega Columbro -. È normale avere numeri diversi ed è anche molto difficile avere numeri stabili nell’anno in corso, perché ci sono indagini che devono procedere e quindi si devono accertare alcuni casi. Ci sono poi realtà che segnalano più casi rispetto ad altre, anche in base alla vicinanza con le famiglie delle vittime, come nel caso di Non Una di Meno, che è spesso in contatto diretto con i familiari. Altri soggetti, invece, per motivazioni diverse, si mantengono su stime più prudenti e le aggiornano magari nei mesi successivi. Secondo me la cosa importante, almeno quella a cui io tengo molto, è che il numero in sé va letto come il risultato di un’analisi sociale che in Italia riguarda numeri comunque molto alti. Sì, è vero che abbiamo un’incidenza contenuta e la più bassa sulla popolazione a livello europeo, e quindi le oscillazioni tra fonti diverse di solito sono minime. È normale che queste differenze dipendano dalla definizione adottata. Se si prende la definizione più ristretta, per esempio solo quella di omicidio nella sfera intima o domestica, il numero sarà più basso, perché si considerano solo le relazioni eterosessuali con marito o ex marito, compagno o ex compagno. Questo tipo di definizione è utile se si devono fare confronti a livello europeo o internazionale, perché consente di avere dati più consolidati. Poi però ci sono enti come Non Una di Meno o la Casa delle Donne di Bologna che ampliano la definizione, non per aumentare i numeri, ma per ragionare sulla matrice della violenza patriarcale e andare a vedere quali sono le cause. La stessa cosa fa l’ISTAT, anche se l’ISTAT utilizza i dati dell’anno precedente. Noi, per esempio, quest’anno abbiamo i dati del 2024, mentre l’ISTAT cerca di utilizzare il framework delle Nazioni Unite. In questo caso si va al di là della violenza tra partner ed ex partner e si include anche un’analisi di come è avvenuto il delitto: il tipo di violenza inferta, se c’è stata violenza sessuale, e altre situazioni. Tutti questi elementi vengono segnalati. Se la metodologia è ben esplicitata, queste indagini possono ritenersi affidabili. La cosa importante è confrontare sempre la stessa fonte di anno in anno”.

Ma perché il Governo, pur raccogliendo questi dati, non li rende accessibili, quando potrebbero invece essere utilizzati per progettare politiche efficaci contro i femminicidi e la violenza di genere? Sciatteria, incuria, noncuranza, preciso disegno politico? “L’idea che mi sono fatta scrivendo il libro e confrontandomi con le associazioni che promuovono la cultura dei dati aperti, è che quando i dati non vengono pubblicati a livello istituzionale manca una presa di responsabilità – conclude Columbro – Pubblicare dati significa investire soldi e risorse, creare un’unità di persone che ci lavori, garantire continuità nella pubblicazione. Pubblicare dati vuol dire anche avviare un processo di trasparenza sull’operato delle istituzioni. Quando questo non avviene, significa che non c’è interesse a garantire il diritto all’informazione delle cittadine e dei cittadini. Si dice: ‘Ce ne occupiamo, abbiamo fatto le leggi, abbiamo fatto questo e quello’, ma non c’è la possibilità di verificare davvero l’operato. La mancanza di dati, o la mancata pubblicazione di dati disaggregati, indica che non c’è una reale volontà di prendersi cura di questo lavoro. Se io faccio un accesso civico agli atti, come ha fatto Period Think Tank, e ottengo quei dati, vuol dire che quei dati esistono. Se però non vengono pubblicati in modo periodico, curati e mantenuti, significa che non è una priorità. Non ci si vuole assumere questa responsabilità, e questo è già un indicatore di come si sceglie di trattare il tema”.

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Femminicidi, misoginia e cultura dello stupro dominano la nostra società, intrisa di odio verso le donne. La "caccia alle streghe" non è un fenomeno così lontano nel tempo, perché tra istituzioni indifferenti e media inadeguati o complici, gli uomini continuano ad ammazzare le donne quando non riescono a dominarle.  È ora di accendere i nostri fuochi e indirizzarli dove non si voleva guardare: Streghe è il nostro Osservatorio sul patriarcato, il nostro impegno per cambiare il modo in cui si raccontano le storie alla base di una società costruita a misura di uomo.

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