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Not all men, certo, ma almeno 32 mila uomini che in un gruppo Facebook si scambiavano foto intime delle proprie mogli – o di donne a caso, in carne ed ossa o create con l’intelligenza artificiale, poco importa – per poi commentare quei corpi in modo esplicito e violento. Il tutto senza che ci fosse alcuna forma di consenso. Il gruppo in questione, Mia Moglie (lo nominiamo solo perché nel frattempo è stato chiuso) non è né il primo né l’ultimo di questo genere. Su Telegram c’è una galassia di chat e spazi in cui materiale intimo viene condiviso in modo non consensuale, per dare sfogo all’immaginazione più violenta e denigratoria dell’uomo sul corpo femminile, niente più che un mero oggetto. È la cultura dello stupro che si manifesta online, per l’ennesima volta.

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Il caso di questo specifico gruppo Facebook è stato raccontato sui social dalla scrittrice e attivista Carolina Capria, conosciuta su Instagram come lhascrittounafemmina. Ha denunciato come in questo spazio ci finissero “donne spesso inconsapevoli di essere fotografate per diventare prede di uno stupro virtuale”. Dopo migliaia di segnalazioni il gruppo è stato rimosso da Meta, che però per anni non ha fatto assolutamente nulla per evitare la proliferazione di quei contenuti. Pare che fosse che quello spazio fosse attivo dal 2018.

Ma in realtà non ci interessa, nello specifico, parlare di questo gruppo: online ci sono decine e decine di gruppi simili collaterali, dove il punto è sempre lo stesso: uomini che scambiano immagini e filmati di corpi femminili come fossero figurine da collezionare e ne dispongono come meglio ritengono per il proprio piacere, per dare sfogo alle proprie fantasie sessuali, senza preoccuparsi minimamente se quelle donne siano consapevoli di quanto stia accadendo o abbiano dato il loro consenso.

Migliaia e migliaia di scatti e video, in cui si mette in vetrina la donna, senza che lei sia partecipe, affinché altri uomini possano usufruire della sua immagine come credono. È un corpo messo a disposizione della volontà maschile, come se lei non ne avesse una propria. E anche se così fosse, non cambierebbe granché. Quella che conta è la volontà di lui: è l’uomo a possedere il corpo dell’altra e a poterne fare ciò che vuole. La violenza è normalizzata. L’oggettificazione è ordinaria quotidianità. La questione del consenso semplicemente non esiste.

Capria cita il caso di Gisèle Pelicot, la donna francese che per quasi dieci anni è stata drogata e poi stuprata mentre era incosciente dal marito e da oltre cinquanta uomini. In particolare si fa riferimento al saggio di Manon Garcia, in cui si spiega che il problema con il consenso non sia tanto di carattere giuridico, ma piuttosto sociale: “Gli uomini, colpevoli di aver abusato di una donna incosciente, non avevano alcuna familiarità con il concetto di consenso legato al sesso. Una donna svenuta che non si dimena acconsente. Una moglie proprietà del marito acconsente. Il consenso è implicito. Le donne non devono esprimerlo, le donne sono a disposizione. Ed è esattamente così. La gran parte degli uomini non ritiene il consenso qualcosa di imprescindibile, qualcosa di fondamentale al rapporto. Anzi – e qui aggiungiamo un passaggio secondo me importantissimo – spesso a eccitare la sessualità maschile è proprio la mancanza di consenso e l’idea che si possa possedere una donna contro la sua volontà. E questo legare la violenza alla sessualità è talmente radicato nella nostra cultura, che in un gruppo pubblico gli uomini scrivono senza nascondere il loro nome e la loro faccia. La forma della sessualità è la sopraffazione, è “sfondarla”, è annientare la donna, vincerla”, scrive Capria.

Per poi ribadire come il caso di Gisèle Pelicot non sia affatto anomalo, per quanto la volontà di questa donna di denunciare il tutto pubblicamente e ribaltare lo stigma della vergogna ci abbia fatto percepire tutto il processo come qualcosa di eccezionale. Ma la storia di un uomo convinto di disporre della propria moglie, di un corpo inteso come proprietà privata, è qualcosa di estremamente ordinario nella cultura dello stupro da cui siamo circondati. Così come il legame tra sessualità e violenza e sopraffazione è parte del sistema: “Perché è così che educhiamo gli uomini. A riconoscersi in una maschilità che conquista, espugna, occupa. Le donne sono merce di scambio e servono solo a stabilire rapporti tra uomini. Questi uomini stabiliscono legami gerarchici e sodalizi, utilizzando il corpo delle donne. Le donne sono lo strumento attraverso cui definiscono la loro maschilità. E lo stupro virtuale un rito”.

A distanza di un giorno, sempre sul suo profilo Instagram, Capria ha raccontato di aver ricevuto decine di segnalazioni di gruppi dove si scambiano foto di donne (mogli, fidanzate, sorelle, cognate, amiche, colleghe o anche perfette sconosciute) dove si ripete sempre lo stesso pattern. La mancanza di consenso è ciò che crea eccitazione. L’identità è ridotta a corpo, il corpo è ridotto a oggetto. E tutto è in funzione di una sessualità predominante, quella maschile, che si esprime con la violenza e la sopraffazione.

A un problema sistemico, ribadisce Capria, la soluzione definitiva non ha tanto a che fare con la punizione di questi comportamenti, ma più che altro con un cambiamento nelle strutture di pensiero, culturali. E in questo senso cita il concetto di corpo intermedio: “Le donne rappresentano da sempre il terreno sul quale gli uomini si sfidano e misurano la loro virilità. Mostrare a un altro uomo la “propria” donna come un bene che si può concedere, ma che comunque si possiede, significa stabilire una gerarchia, creare un rapporto con quell’uomo che altrimenti sarebbe impossibile forgiare. È un gioco nel quale le donne sono solo una merce, un bene che aggiunge valore all’uomo che lo possiede. Un corpo intermedio tra due corpi che altrimenti non sanno come stabilire un rapporto. Perché l’unico rapporto è quello che ha al centro la virilità”.

Di tutto questo, soprattutto del ruolo della rete in questi meccanismi, ho parlato con Silvia Semenzin, sociologa, ricercatrice e attivista per i diritti digitali, autrice insieme a Lucia Bainotti del saggio “Donne Tutte Puttane: Revenge Porn e maschilità egemone”, un lavoro basato sull’infiltrazione in decine e decine di gruppi Telegram dove uomini scambiavano materiale intimo in modo non consensuale. È a Semenzin, per capirci, che si deve l’avvio in Italia di quel percorso che poi ci ha portato ad avere una legge sul cosiddetto revenge porn.

Mi ha spiegato che il gruppo finito sui giornali in queste ore non ha assolutamente nulla di nuovo: “Questa è una cosa che avevamo trovato anche nei gruppi di Telegram: la matrice della negazione del consenso all’interno di pratiche violente. Sostanzialmente vediamo come gli utenti mercificano le donne, trattandole come oggetti sessuali, e tutto quello che ha a che vedere con il loro desiderio sparisce. Tutto quanto è in funzione del piacere maschile. Proprio le pratiche non consensuali diventano fonte di fantasie da coltivare. All’interno di questi gruppi probabilmente c’è anche una piccola minoranza che è consenziente, ma ciò non toglie che ci sia un problema rispetto a come l’eterosessualità maschile concepisca il sesso, le relazioni, l’amore, il rapporto con l’altro genere”.

Insomma, alla base di fenomeni di questo tipo c’è un gigantesco problema con il maschile e la sessualità: “Tutto questo sottolinea in realtà una debolezza gigantesca, l’incapacità di riuscire a immaginare una sessualità che vada oltre il rapporto sessuale violento, aggressivo, che consuma il corpo altrui. Questa è anche una limitazione gigantesca della maschilità. E questo si interseca in maniera profonda con la rete, perché poi la rete è in grado di catturare questi desideri, di riprodurli e in alcuni casi anche amplificarli. Pensiamo a Bell Hooks e a tutte quelle autrici femministe che ci raccontano quanto l’amore sia politico. Bisogna lavorare per la costruzione di un immaginario di desideri sessuali più rispettosi dell’altro”.

Un lavoro che in parte negli ultimi anni si sta facendo, ad esempio spingendo per l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole. Ma la strada è ancora lunghissima e gruppi come quello di cui si sta parlando in queste ore ce le dimostrano. Anche perché non si tratta di casi isolati: online esiste una marea di spazi simili.

La verità è che alle piattaforme conviene che queste realtà esistano, ha spiegato Semenzin:  “Da una parte ancora ci sconvolge, ma questi gruppi esistono da tantissimi anni. Questo caso ci indica che tutto quello che noi vediamo online, tutto quello che diventa virale, è sempre frutto di una scelta politica molto chiara. Non è vero che le piattaforme non possono fare nulla sulla violenza di genere, non vogliono fare niente. Anzi, in un certo senso fomentano anche questo tipo di pratiche, perché sono pratiche che portano profitto alle piattaforme: infatti generano dati e interazioni. Anche il fatto di nominare questo gruppo (quando era ancora aperto, ndr) da un lato lo ha sicuramente esposto, ma dall’altro ha generato anche tanta curiosità morbosa e attirato tanti utenti in quello spazio: tutto questo per le piattaforme è oro colato”.

Chiudere un singolo gruppo non è mai risolutivo, perché la pratica si sposta semplicemente su un altro spazio o su un’altra piattaforma: “Finché non si cambiano le strutture culturali, questi gruppi, anche se vengono chiusi, si spostano da una piattaforma all’altra. Di solito lo fanno su quelle più “sicure” o comunque meno scrutinate come appunto Telegram o i piccoli forum e siti porno. La cosa più interessante di questo caso è che riguarda una piattaforma come Facebook. Lo ricordiamo, Facebook è stata una delle prime piattaforme ad avere gruppi in cui si scambiava materiale intimo in modo non consensuale, però poi in teoria questi gruppi erano stati chiusi proprio con le politiche repressive della sessualità”.

Politiche che però non sembrano aver funzionato fino in fondo, anzi: “Meta non ha mai avuto un approccio sex positive, ma un approccio di censura con tutto ciò che ha a che vedere con il sessuale. In realtà questa repressione si è sempre concentrata verso una sessualità più libera, mentre quelle pratiche che sono invece specchio di una eterosessualità (anche se tossica) vengono fomentata. Le ricerche ci dicono proprio questo: Meta non modera fino a oltre il 90% sia per quanto riguarda i commenti che i messaggi diretti, tant’è che moltissimi video non consensuali vengono ancora inviati su Messenger o DM”, racconta la ricercatrice.

C’è anche un altro tema di cui abbiamo parlato con Semenzin, che è sempre più attuale. L’uso dell’intelligenza artificiale: “L’uso dell’AI anche in questo campo è esploso, aumentando circa del 600%. A ogni boom di una tecnologia corrisponde anche un boom di violenza online, principalmente verso le donne. Le due cose vanno in parallelo”.

Insomma, nonostante il lavoro fatto in questi anni, tanti fenomeni non solo rimangono profondamente radicati. Ma vengono anche amplificati dalle nuove tecnologie. Cosa possiamo fare, quindi? “Più che segnalare alla polizia postale bisognerebbe fare una segnalazione alla Commissione europea, perché qui Meta sta violando il Digital Service Act. Questo ha a che vedere con i rischi sistemici delle piattaforme digitali più mainstream, quelle sopra i 45 milioni di utenti al mese: la violenza di genere online è considerata un systemic risk, com’è allora che la piattaforma non sta moderando questo tipo di fenomeno? Per questo tipo di gruppi Meta potrebbe – anzi, dovrebbe – essere multata”, dice Semenzin.

E poi, chiaramente, va fatto un lavoro di tipo culturale. “Senza voler puntare il dito in maniera negativo contro la pornografia, però va detto che le piattaforme mainstram di pornografia partecipano alla creazione di un immaginario sessuale: ci sono intere categorie che si chiamano “consensually non consensual”. Comunque viene menzionato il consenso, però poi come facciamo a capire se quei contenuti sono effettivamente consensuali? C’è comunque una marea di categorie che richiama all’idea del materiale rubato, preso senza consenso e di nascosto, che torna ad offrire l’idea del soggetto femminile come qualcosa da consumare e basta. Tutto questo punta sempre a cancellare quello che è il desiderio femminile, che è invece una cosa su cui si deve lavorare. Altrimenti saremo sempre vittime. La cosa più difficile in queste piattaforme è capire dove c’è il consenso e dove invece manca. Già è difficilissimo da un punto di vista legale, figuriamoci da un punto di vista algoritmico: per questo la voce dei soggetti ritratti dovrebbe essere centrale, perché sono le uniche persone che ci possono determinare se quel contenuto è consensuale o meno”, conclude la ricercatrice.

Anche per questa puntata di Streghe è tutto. Fammi sapere cosa ne pensi e, se vuoi, dammi una mano a diffondere questo lavoro: non solo condividendolo, ma anche parlandone a scuola, in famiglia, con gli amici, sul posto di lavoro. Se hai segnalazioni da fare, vuoi raccontarci la tua esperienza, o pensi ci sia un argomento su cui è necessario fare luce, scrivici a streghe@fanpage.it.

Ci sentiamo alla prossima puntata. Ti ricordo che ‘Streghe’ non ha un appuntamento fisso: esce quando serve. E dove serve, noi ci siamo.

Annalisa Girardi

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Femminicidi, misoginia e cultura dello stupro dominano la nostra società, intrisa di odio verso le donne. La "caccia alle streghe" non è un fenomeno così lontano nel tempo, perché tra istituzioni indifferenti e media inadeguati o complici, gli uomini continuano ad ammazzare le donne quando non riescono a dominarle.  È ora di accendere i nostri fuochi e indirizzarli dove non si voleva guardare: Streghe è il nostro Osservatorio sul patriarcato, il nostro impegno per cambiare il modo in cui si raccontano le storie alla base di una società costruita a misura di uomo.

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