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Ormai ce lo sentiamo ripetere da anni: le nascite sono sempre meno, la popolazione invecchia, e diminuiscono le persone che fanno figli. I governi lanciano allarmi verso ‘l’inverno demografico’, ogni tanto mollano qualche contentino alle famiglie tra cosiddetto ‘bonus mamme’ e assegno unico, ma d’altra parte nulla si fa per aumentare il numero e la qualità dei servizi offerti alle famiglie. Welfare nemmeno a parlarne: una delle prime cose che ha fatto il Governo Meloni è stato eliminare il reddito di cittadinanza, in una logica che premiava più le piccole imprese a basso valore aggiunto che le famiglie a basso reddito. Costringendo queste ultime ad accettare qualsiasi livello di salario per sopravvivere.
La domanda è: con salari bassi, assenza di servizi e mancanza di piani di welfare possiamo dire che è inutile lamentarsi del fatto che le persone non fanno figli?
La questione della natalità è un tema serio, che seriamente dovrebbe essere affrontato, almeno dalle istituzioni. Il livello invece, come al solito, è molto basso. Quindi dobbiamo sorbirci discorsi privi di qualsiasi fondamento logico, che puntano il dito contro ‘i giovani che non vogliono responsabilità’, le donne ‘che non si rendono conto dell’avanzare dell’orologio biologico’, i troppi ‘agi’ in cui la nuova generazione è cresciuta e che la rendono ‘non incline a voler fare sacrifici’.
Per questa nuova puntata di Streghe ho parlato con Chiara Saraceno. Professoressa emerita all’Università di Torino, dove insegna Sociologia della famiglia presso la facoltà di Scienze Politiche, è una delle più autorevoli sociologhe italiane. Il suo ultimo libro è ‘La famiglia naturale non esiste’. Saraceno mette ordine in un argomento molto complesso, le cui radici affondano in tempi nemmeno troppo recenti.
“È necessario chiarire innanzitutto che la denatalità è dovuta soprattutto alla diminuzione del numero di persone in età feconda”, spiega. “Questo perché sono nate meno persone nel corso del tempo: si tratta di un processo di lungo periodo. Le generazioni dalla mia in poi — io sono ultraottantenne — hanno progressivamente avuto meno figli. Per questo, quando si osserva che nel 1980 sono nati molti più bambini rispetto a oggi, non dobbiamo pensare solo che sia dovuto al fatto che le generazioni attualmente in età feconda hanno un tasso di fecondità drasticamente inferiore a quelle di allora. Il fattore principale è che, a motivo delle scelte di fecondità delle generazioni che si sono succedute, oggi ci sono molte meno persone potenzialmente in grado di avere figli rispetto agli anni Ottanta. Innanzitutto va chiarito questo”.
“Bisogna poi distinguere tra tasso di natalità e tasso di fecondità – continua Saraceno -. Il tasso di natalità indica il numero di nati per 100 persone, mentre il tasso di fecondità misura il numero medio di figli per donna al termine dell’età feconda. I due indicatori sono strettamente collegati: se generazioni numericamente sempre più ridotte continuano ad avere pochi figli — e in media leggermente meno rispetto alle precedenti — l’effetto complessivo è un progressivo peggioramento dal punto di vista demografico. Continuare a pensare che il problema della denatalità sia una responsabilità, o un effetto principalmente imputabile alle generazioni oggi in età feconda, è sbagliato. Anche se facessero tre figli a testa, ci vorrebbe comunque molto tempo per compensare ciò che si è già perso, cioè il fatto che oggi siano numericamente di meno. Questo è un punto importantissimo, perché la distinzione tra le due cose è nota, almeno in linea di principio — e dovrebbe esserlo anche per i politici — ma poi, nei fatti, si continua a ragionare come se si trattasse solo dei comportamenti delle generazioni oggi giovani”.
Dire quindi che oggi ‘i giovani non vogliono più fare figli’, non solo è molto banale, ma anche privo di senso. “Il fenomeno di un basso tasso di fecondità, al di sotto del livello di sostituzione, non è un fenomeno recente. È così già da tempo, non riguarda solo le generazioni giovani di oggi, ma anche quelle che erano giovani dieci o vent’anni fa. Sono circa quarant’anni che abbiamo, oggettivamente, un problema di fecondità. Il punto più basso è stato raggiunto nella seconda metà degli anni Novanta, intorno al 1995, se non sbaglio. Da allora non c’è mai stata una vera risalita: ci sono stati solo piccoli rimbalzi, e oggi la tendenza è di nuovo in discesa. Per questo è anche cambiato ciò che si intende per famiglie numerose. Rispetto agli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, si è dimezzato il numero di figli che le definiva tali: tre, non sei come quando io ero una di sei figli – una famiglia ‘fuori standard’, in una società in cui la media era tre. Sempre per lo stesso motivo, da un censimento all'altro sono fortemente diminuite le famiglie con figli residenti sotto lo stesso tetto: perché se ne nascono pochi, aumenta la possibilità che i loro genitori si trovino per lunghe fasi della vita a non averli, ancora o più, in casa con loro”.
“Il primo dato, quindi, è questo: la bassa natalità è una questione che, anche dal punto di vista delle politiche, non può essere risolto facilmente, in poche mosse e in poco tempo. È anche per questo che l’immigrazione è importante, perché ringiovanisce la popolazione: gli immigrati sono tendenzialmente più giovani — non migrano i vecchi — e da un lato compensano la carenza di forza lavoro, visto che gli autoctoni in età da lavoro non sono in numero sufficiente, dall’altro contribuiscono a sostenere la natalità. Più la natalità che la fecondità, in realtà: perché se è vero che le donne straniere hanno mediamente tassi di fecondità un po’ più alti delle autoctone, tendono progressivamente ad avvicinarsi a questi, anche perché condividono, spesso in modo più accentuato, le stesse difficoltà”.
Ci sono poi i cambiamenti sociali, che certo hanno avuto un ruolo. “Tra i motivi del progressivo calo della fecondità vi sono certo cambiamenti culturali – continua Saraceno -. In particolare, non c’è dubbio che siano cambiate le donne, ed è un aspetto importante. Le donne oggi sono più istruite. Hanno in percentuali maggiori caratteristiche simili a quelle che, nella mia generazione, avevano solo le poche donne che studiavano a lungo. Già allora, infatti, chi proseguiva gli studi faceva figli più tardi: rimaneva più a lungo in formazione, si sposava più tardi e diventava madre più tardi. Dalla fine degli anni Settanta, per fortuna, le donne studiano quanto gli uomini, se non di più, e quindi restano più a lungo in formazione. È vero che, rispetto a molte coetanee — e anche ai maschi — di altri paesi europei, il livello medio di istruzione in Italia resta più basso, ma rispetto al passato le donne restano comunque più a lungo in formazione e hanno così caratteristiche che un tempo appartenevano solo a una minoranza, quella delle donne che facevano figli più tardi”.
“Il fatto che le donne studino di più significa anche che hanno aspettative nella vita che non si esauriscono nella maternità. Vogliono un’occupazione, vogliono realizzarsi, come si dice. Per questo investono anche su questi aspetti e rimandano: cercano prima di stabilizzarsi nel mercato del lavoro, di orientarsi, di capire. Da un lato, quindi, sempre meno persone vogliono avere figli a 18 o 20 anni; dall’altro, spesso uno o due figli sono sufficienti a soddisfare il desiderio di genitorialità. È quindi cambiato in parte ciò che viene considerato una ‘buona vita’. Questo vale anche per gli uomini, ma riguarda soprattutto le donne, perché la maternità le coinvolge direttamente. E questo può ritardare le scelte riproduttive. Ritardando, sappiamo che la fecondità non aumenta con l’età: al contrario, dal punto di vista biologico e fisiologico diminuisce. Non a caso, in passato, i paesi che volevano controllare la fecondità innalzavano l’età al matrimonio, in modo che le donne arrivassero il più tardi possibile alla vita sessuale e quindi alla procreazione. Oggi, invece, si tratta di una scelta individuale. Anzi, probabilmente la sessualità è anticipata rispetto al passato, anche per le donne, non solo per gli uomini, mentre la procreazione viene rimandata. Non bisogna colpevolizzare: c’è libertà di scelta, ed è stata anche una conquista culturale, soprattutto per le donne, non essere considerate poco normali o poco femminili se non vogliono avere figli”.
Questo non vuol dire che la politica è esente dal dover fare qualcosa. Temi enormi come la precarietà, la povertà, l’emergenza abitativa, incidono molto sul desiderio di fare dei figli. Oltre che sulla vita delle persone in generale, che vogliano riprodursi o meno. “Si tratta di mutamenti culturali e nei comportamenti femminili che riguardano anche altri paesi occidentali sviluppati, che infatti hanno tutti tassi di fecondità bassi, chi più chi meno. In Italia, però, il rinvio delle scelte familiari dipende anche dal fatto che molte donne e molti uomini, pur volendo magari avere figli prima, non se lo possono permettere: il lavoro è precario, l’accesso alla casa è complicato, i servizi sono scarsi. Per le donne si aggiungono rischi e difficoltà ulteriori, legati proprio alle conseguenze della maternità sulle loro chances nel mercato del lavoro e sulla divisione del lavoro familiare. Tutto questo rallenta ulteriormente le scelte e spinge a rimandare, quando non a rinunciare. Si aggiunga che molti giovani vengono scoraggiati dal rimanere nel Paese perché non si sentono adeguatamente valorizzati, perciò emigrano altrove, diminuendo ulteriormente la popolazione in età fertile. Anche questa è una questione tipicamente italiana”.
“L’Italia, da lungo tempo, ha più politiche che scoraggiano che che incoraggiano la fecondità. Basta pensare all’assenza di politiche per la casa. Oppure ai servizi per la primissima infanzia, spesso scarsi e costosi, non accessibili a tutti, soprattutto se bisogna affidarsi al privato. A questo si aggiungono orari di lavoro poco flessibili e altri fattori: in sostanza ci sono più disincentivi che incentivi”.
Insomma: a fronte della legittimità delle scelte individuali, non è proprio vero che la maggior parte delle persone, anche quelle più giovani, non vogliono avere figli. “Segnalo che, mentre in altri paesi europei e negli Stati Uniti sta crescendo la quota di persone che dichiara di non voler avere figli — esprimendo un vero non-desiderio di figli, anche se può cambiare nel corso della vita — in Italia questo fenomeno non c’è ancora”, spiega infatti Saraceno. “Le indagini sugli adolescenti mostrano che molti vogliono avere figli, spesso due o tre. Non è quindi il desiderio che manca, ma la possibilità concreta di realizzarlo. Il problema è lo scarto tra desiderio e possibilità: non è solo questione di ‘prima faccio questo e poi i figli’ o di preferire il tempo libero. La difficoltà reale è avere figli senza rischi e senza compromettere la propria capacità di garantire loro una vita adeguata. Se metto al mondo un figlio, so che devo mantenerlo. Voglio dargli una vita buona, ma se il mio reddito non è sicuro nemmeno per i prossimi tre mesi, o se devo fare un mutuo ventennale per una casa di due stanze, dove posso mettere un figlio?”.
Da tempo i Governi (e non solo quello Meloni) non si occupano del tema. Nonostante i proclami e gli allarmi, non viene affrontato in modo adeguato né il tema del lavoro né quello della casa, come se fossero sconnessi dalle scelte riproduttive. “Non è questo governo in particolare a non occuparsi della questione: si tratta di una storia lunga. Questo governo, devo dire, fa discorsi molto pro-natalisti e ha introdotto qualche piccola misura, ma non sono le più adatte. Ad esempio, mentre il PNRR è stato ridefinito sette volte riducendo il numero di asili nido promessi, non esiste alcuna politica della casa degna di questo nome. Non è solo colpa di questo governo, ma continuiamo a non avere politiche strutturali. A un certo punto avevano persino tolto il fondo per l’affitto — non so se sia stato rimesso, probabilmente no — che serviva a sostenere chi fa fatica a pagare l’affitto. Non parliamo poi di quello che è stato fatto sulla povertà. Inoltre, molte misure sostengono più chi ha già figli che chi vorrebbe averne. Per esempio, la decontribuzione per le lavoratrici regolari con contratto a tempo indeterminato che hanno almeno tre figli. Quante saranno le lavoratrici in questa situazione? Pochissime. È una misura simbolica: premia chi ha già figli, ma non incentiva a fare un figlio in più, o il primo. Per arrivare ad averne tre, bisogna prima farne uno. Soprattutto, non si considera che bisogna aiutare le donne a restare nel mercato del lavoro senza perderlo o doverlo abbandonare quando hanno un figlio. Questi sono i problemi”.
La denatalità è un fenomeno irreversibile o una tendenza che può essere invertita? “La bassa natalità, come dicevo, è una questione che resterà con noi ancora per un po’, perché non possiamo improvvisamente aumentare il numero di persone in età feconda – conclude Saraceno -. Quelli che non sono nati non ci saranno, e quelli che oggi non nascono non ci saranno domani. Per questo l’immigrazione e politiche migratorie ben fatte sono indispensabili. Quello che possiamo fare, invece, è non disincentivare la fecondità, cioè la scelta di avere un figlio, e sostenerla per chi vuole farlo. Si può facilitare, ad esempio, con politiche della casa adeguate. Questo non significa necessariamente aiutare a comprare casa: per i giovani spesso è meglio anche l’affitto, perché comprare blocca per vent’anni e può limitare la mobilità. Servono politiche dell’affitto efficaci, perché oggi il mercato è costoso e ristretto, soprattutto nelle grandi città. Se, per esempio, per permettersi una casa bisogna abitare fuori dalla città in cui si lavora, con tempi lunghi di trasporto, tutto diventa più complicato. Servono anche politiche dei servizi e la garanzia di poter accedere a scuole e servizi per i figli senza doversi svenare: scuole di buona qualità con tempo pieno, una sanità funzionante. Servono anche lavori buoni, pagati adeguatamente e conciliabili con altre dimensioni importanti della vita, a partire dalla genitorialità, per le madri e per i padri. Perché anche i padri vanno incentivati a occuparsi della cura dei più piccoli, che non deve rimanere un compito esclusivamente materno”.
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Natascia Grbic