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La newsletter di Fanpage.it contro il silenzio

Ciao,
se c’è una cosa che abbiamo capito, in questi primi mesi di amministrazione Trump, è che gli Stati Uniti d’America hanno uno Stato in più: parliamo dell’Italia, che dai dazi alla spesa militare, sino al conflitto tra Israele e Palestina ha assunto una posizione del tutto subordinata ai voleri di Washington. Non una grande novità, direte voi. Vero: ma la novità si chiama Trump, che ha assunto una posizione di marcata contrapposizione con l’Europa.
E fa specie che il nostro governo, come nessun altro in Europa, assuma una posizione del tutto acritica nei confronti delle decisioni americane, anche quando vanno chiaramente in conflitto col nostro interesse nazionale. Fa specie, soprattutto, che tutto questo avvenga con una maggioranza di sovranisti, nazionalisti, patrioti, o come volete chiamarli.
Evidentemente, è più facile difendere l’interesse nazionale quando si sta all’opposizione.
Iniziamo con le vostre domande e le risposte della redazione di Fanpage.it.
- Perché l'Italia non si muove per riconoscere lo stato di Palestina? – Luigi
Caro Luigi, la questione del riconoscimento dello Stato di Palestina è molto più complessa di come ci viene presentata in questi giorni. Come certamente saprai, ne stiamo parlando tanto dopo la decisione del presidente francese Macron di riconoscere ufficialmente lo stato palestinese all’Assemblea Generale ONU in programma a settembre. Alla Francia, inoltre, si uniranno Regno Unito, Canada e Malta, aggiungendosi alle circa 150 nazioni che già lo hanno fatto dal 1988 in poi. Tra queste nazioni non figura l’Italia, perché, secondo la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, un riconoscimento sarebbe al momento “controproducente”, non essendoci le condizioni minime per attuare la soluzione dei “due popoli, due Stati”.
Vanno dette rapidamente tre cose. La prima è che quella di Macron è una mossa politica per provare a mettere pressione al governo israeliano, destinata almeno a spostare gli equilibri in seno al Consiglio di sicurezza dell’ONU (isolando de facto gli Stati Uniti, specie se GB farà lo stesso). Ma, appunto, come tale va interpretata: non è realistico ipotizzare grandi cambiamenti immediati, né sarebbe corretto considerarla necessariamente come una mossa utile ad accelerare i negoziati verso un cessate il fuoco.
La seconda riguarda l’Italia. Onestamente, è difficile scendere nel merito della scelta di Meloni senza considerare il contesto. Ha infatti poco senso analizzare le intenzioni del governo, in una situazione nella quale Meloni, Tajani e Salvini hanno dimostrato di voler appaltare quasi completamente la nostra politica estera all’amministrazione statunitense guidata da Donald Trump. Siamo ormai la quinta colonna trumpiana, agente disgregante dell’unità europea, il principale limite a qualunque possibilità di fare fronte comune contro l’aggressività statunitense. Quando “The Donald” cambierà idea sulla questione, Palazzo Chigi ubbidirà.
Infine, credo sia necessario un chiarimento di fondo. Dobbiamo essere seri, al momento non ci sono grandi possibilità che il progetto dello stato palestinese possa andare in porto. Non solo perché non c’è alcuna volontà da parte israeliana di legittimare le istanze palestinesi (tra l’altro, come nota Robinson su CNN, si dovrebbe tornare alle frontiere del 1967, ma Tel Aviv negli anni ha massicciamente occupato i territori in Cisgiordania e cambiato senso anche agli accordi di Oslo). Uno dei punti dirimenti è la fine dell’occupazione illegale dei territori palestinesi, la cancellazione del colonialismo di insediamento di matrice israeliana. Il vero ostacolo a ogni prospettiva futura, infatti, è la negazione della piena autodeterminazione, che impedisce ai palestinesi di determinarsi politicamente, giuridicamente e persino demograficamente.
Senza queste condizioni, è un dibattito sul nulla. Utile solo a lavare le coscienze di chi ha scoperto il dramma di Gaza con colpevole ritardo.
Adriano Biondi, condirettore Fanpage.it
- Perché questo governo non si rivolge ad altri partner che non siano gli Stati Uniti? perché così facendo l'America resterebbe isolata e dovrebbe inginocchiarsi ai voleri dell'Europa (…) proprio con gli americani dobbiamo avere a che fare che cercano di fregarci a tutti i costi? – Guido
È una domanda molto interessante, Guido, cui vorrei dare una risposta non banale. L’Italia, storicamente, ha beneficiato nel corso di tutto il secondo Dopoguerra – perlomeno fino alla fine della Guerra Fredda – del suo essere un Paese di frontiera. Fortemente atlantista, con la Democrazia Cristiana saldamente al potere, ma anche con il Partito Comunista più grande e forte d’occidente, con leader di governo che non avevano il timore di scontentare l’alleato americano – vedi Craxi a Sigonella -, con la Fiat che investiva in Unione Sovietica e nei Paesi oltre la Cortina di Ferro, e con una politica estera ed energetica che strizzava l’occhio a Paesi come la Libia o l’Iran non certamente visti di buon occhio dagli Stati Uniti d’America. Non si può dire fossimo autonomi, certo, ma sicuramente avevamo margini per interpretare a modo nostro il ruolo di alleati.
Sarà un caso, ma il declino italiano inizia quando la Guerra Fredda finisce, quando smettiamo di essere frontiera. Ora, con una nuova contrapposizione geopolitica alle porte, quella tra Usa e Cina – l’Italia, così come del resto tutta l’Europa – deve capire come posizionarsi, forte del fatto, perlomeno, che è un mercato di mezzo miliardo di persone, tendenzialmente più ricche della media. Farlo inginocchiandosi di fronte a Trump non sembra essere la strategia migliore. Ma magari siamo noi che sbagliamo, eh.
Francesco Cancellato, direttore Fanpage.it
- Ieri sera guardavo un film su YouTube, ad un certo punto è comparso un appello che accusava l'Onu di bloccare gli aiuti umanitari elargiti da Israele al confine e relativo deterioramento delle derrate. Le guerre si vincono anche con le parole e la disinformazione, grazie – Leila
Ciao Leila, storicamente la guerra trasforma le parole in armi. Vengono usate per giustificare, screditare, ingannare e suscitare indignazione morale per costruire sostegno. L’arte della propaganda è antica quanto la guerra stessa. Ma oggi stiamo assistendo a qualcosa di diverso. La guerra, infatti, non si era mai scontrata con le piattaforme e i social in questo modo. Ed è su questo terreno di sperimentazione che prende forma il business delle sponsorizzazioni.
Israele di fatto sta utilizzando strumenti propri della comunicazione commerciale per la sua propaganda. E per farlo basta pagare. Più si investe più annunci invadono – come è successo per il tuo film su YouTube – gli schermi all’improvviso. E non importa se sono fake news, come nel caso dell’ONU che blocca gli aiuti umanitari.
Tutto parte da Google Ads, la piattaforma pubblicitaria di Google che gestisce anche gli spazi promozionali su YouTube. Una volta creato un account basta scegliere il tipo di campagna, selezionare “video” e si accede così all’universo degli spot digitali che scorrono prima, durante o accanto ai contenuti sulle piattaforme.
È così che il governo di Netanyahu ha avviato una vasta campagna sui social media nei principali Paesi occidentali per raccogliere sostegno. Israele, suppongo, stia pagando una cifra considerevole per far sì che questi annunci vengano visualizzati regolarmente.
In questo scenario resta da capire il ruolo delle piattaforme. Non vedono? Fanno finta di non vedere? Sono complici? Forse ignave? Domande che restano aperte. Intanto nel silenzio delle risposte mancanti centinaia di annunci pubblicitari pro Israele compaiono su X, YouTube, Instagram, Facebook e TikTok. I megafoni per quelle parole che diventano armi.
Elisabetta Rosso, area Innovazione
- C'è solo un modo per fermare la follia dei dazi americani: tutti quei Paesi che hanno avuto questo aumento, non devono più commerciare con gli Stati Uniti o, quanto meno, applicare gli stessi dazi sulle merci americane. Si è sempre detto che l'unione forma la forza… – Giorgio
Ciao Giorgio, la tua è un'osservazione abbastanza condivisa, come si vede anche dall'altra domanda a cui il nostro direttore ha risposto in questa puntata di Rumore. Se diventa più sconveniente per noi commerciare con gli Stati Uniti, perché l'Europa non si trova semplicemente altri partner? Le considerazioni da fare sono due e sono collegate tra loro. La prima è che lo stiamo facendo, ma non solo a causa delle politiche trumpiane sulle tariffe. Subito dopo il Liberation Day – così il presidente statunitense aveva definito il 2 aprile, il giorno in cui ha annunciato il suo piano per mettere i dazi a mezzo mondo – Bruxelles ha iniziato a lavorare per rafforzare gli accordi commerciali con altri Paesi, o stringerne direttamente di nuovi. In altre parole, ha iniziato a diversificare ulteriormente le sue politiche commerciali. Una strategia, quella del diversificare, a cui ormai ci stiamo abituando se pensi anche a quanto accaduto con le politiche energetiche negli ultimi anni.
Il punto (o problema) è che la relazione commerciale con gli Stati Uniti è insostituibile. Gli Usa sono il nostro principale partner commerciale, è la relazione economica più importante del pianeta, la più corposa in termini di cifre: parliamo, per citare i dati del 2023, di 1,6 trilioni di euro in beni e servizi scambiati: significa che ogni giorno beni e servizi per 4,4 miliardi attraversano l'oceano che ci divide. Da questo filo che collega le due sponde dell'Atlantico dipendono milioni di posti di lavoro e il sostentamento di interi settori. Quindi – e qui arriviamo alla seconda considerazione – parliamo di una relazione a cui non si può rinunciare dall'oggi al domani, sabotarla non conviene a nessuno. Negoziare era necessario, chiaramente si potrebbe discutere di come l'ha fatto l'Unione europea e in che modo si è posta rispetto alle pretese di Trump.
Una presa di posizione molto diversa è stata, ad esempio, a quella dei Brics. Paesi che tra l'altro sono molto più vulnerabili, a livello economico. Ma il cosiddetto Sud Globale ha deciso di adottare tutt'altro tono con Washington ribellandosi a delle politiche che fanno male a tutti.
Annalisa Girardi, vicecapo area Video
Direi che è tutto, anche per oggi.
Grazie per averci accompagnato fino a qua.
Francesco Cancellato