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La newsletter di Fanpage.it contro il silenzio

Magari mi ricordo male, ma non mi pare che ci sia mai stato un caso di sanzioni contro una singola persona da parte di una nazione, a maggior ragione una democrazia come gli Stati Uniti d’America, e mi pare anche che mai queste sanzioni abbiano colpito una relatrice speciale dell’Onu. A memoria d’uomo, nemmeno mi ricordo di un altro Paese, Israele, che paga profumatamente una di quelle stesse aziende affinché porti in cima ai risultati di ricerca gli articoli che raccontano cose false a proposito di questa relatrice speciale, allo scopo di diffamarla. Per dare a giornalisti e commentatori materiale per delegittimare lei e quel che dice.
Se tutto questo sta accadendo a Francesca Albanese è perché è una persona che sta provando, nel suo piccolo, a dire una cosa enorme: la verità. Sul genocidio in atto a Gaza. E sul sostegno finanziario che importanti aziende americane stanno offrendo a Israele per perpetrare quel massacro quotidiano contro la popolazione civile che abita la striscia.
Ecco perché questo giornale starà sempre a fianco di Francesca Albanese e alle persone come lei. Perché mai come oggi non si può non scegliere da che parte stare.
Passiamo alle vostre domande e alle risposte della redazione di Fanpage.it
- Si può fare una campagna di sensibilizzazione del mondo accademico in favore ed a tutela di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati ?
Orazio
Caro Orazio,
sì, si può fare. E ci sono esempi concreti che ci dicono che non sarebbe nemmeno una forzatura, ma una forma di impegno coerente con il ruolo che il mondo accademico può, e forse dovrebbe assumere in certi frangenti.
Il caso più significativo che mi viene in mente è quello degli Academics for Peace in Turchia. Nel 2016, oltre duemila docenti universitari firmarono un appello pubblico in cui denunciavano le operazioni militari condotte dal governo turco nelle province curde e chiedevano la fine della repressione. Non fu un gesto privo di conseguenze: molti dei firmatari subirono ritorsioni gravi, tra licenziamenti, processi penali e misure disciplinari. Ma quell’iniziativa, che partì dall’interno delle università, riuscì a generare un dibattito pubblico e a richiamare l’attenzione internazionale. Studiosi come Judith Butler e Noam Chomsky si unirono alla mobilitazione, e da allora il caso è considerato uno dei più emblematici esempi di attivazione collettiva del sapere contro la censura e la violenza istituzionale.
Non è lo stesso contesto, certo. Ma la logica non è così distante. Anche Francesca Albanese, da tempo, è oggetto di attacchi politici e mediatici per il lavoro che svolge come relatrice speciale delle Nazioni Unite per i territori palestinesi occupati. Dopo il suo ultimo rapporto, quello in cui analizza il coinvolgimento di grandi aziende nel sistema dell’occupazione israeliana, è arrivata persino una misura formale da parte del Dipartimento di Stato americano: sanzioni personali, un fatto piuttosto inedito per una figura che opera con un mandato ONU.
Negli ultimi giorni qualcosa comunque si è mosso anche dal mondo della cultura: su iniziativa di Tlon, è stata promossa una lettera aperta firmata da decine di personalità del cinema, della musica, della letteratura. Il testo chiede alle istituzioni italiane di difendere una propria cittadina impegnata in un incarico internazionale, e propone al Parlamento di votare una mozione per garantirle protezione diplomatica.
In questo scenario, il mondo accademico italiano avrebbe, insomma, tutto il margine, e anche la credibilità,per far sentire la propria voce. Dare sostegno ad Albanese significa riconoscere l’importanza di chi svolge un incarico internazionale complesso e ostacolato, molto spesso, proprio da chi fatica ad accettare le regole del diritto internazionale. E vuole dire anche qualcosa di più: significa sostenere il principio stesso che il diritto esiste, che vale per tutti, e che non può essere messo da parte solo perché la politica, in certe circostanze, preferisce far finta che non esista.
Quindi sì, si può fare. E sarebbe un segnale importante e rumoroso.
Francesca Moriero, redattrice area politica
- Seguendo i vostri articoli la cosa che mi preoccupa di più ultimamente è la libera informazione con tutto il caso Paragon e quello Pegasus. La mia domanda è perché non se ne parla abbastanza? Come si può fare più “rumore” per spingere anche i media nazionali come la Rai a raccontarlo?
Camilla
Cara Camilla,
mettiamola così: forse in Italia diamo un po’ per scontato che qualcuno possa spiare i giornalisti. Forse, sotto sotto, pensiamo che la stampa libera sia una rottura di scatole, che qualche inchiesta possa andare a rompere un giocattolo che ci piace. O peggio ancora, che non esista una stampa libera, ma solo una stampa manipolata da altri poteri, parte in causa della lotta politica. E che in guerra, in fondo, valga tutto.
Non è così, ovviamente. E basta vedere quanto il caso Paragon abbia destato interesse e preoccupazione all’estero – nonostante i casi emersi siano tutti italiani, o quasi – per rendersene conto. La nostra disabitudine a una stampa libera e indipendente è parte del problema, insomma. E l’unico modo per fare rumore, banalmente, è sceglierla e sostenerla fino in fondo.
Francesco Cancellato, direttore responsabile Fanpage.it
- Perché, al di là delle appartenenze politiche, in Italia sembra mancare un reale interesse per investimenti significativi nella sanità e nella ricerca universitaria?
Paola
Cara Paola,
non è semplice rispondere alla tua domanda; la questione è complessa e si intrecciano ragioni diverse. Negli anni gli investimenti in ambiti come sanità o istruzione sono stati sacrificati, a volte a favore di interventi spot e bonus, più sostenibili a livello economico (per un Paese come l’Italia che spesso in sede di bilancio fatica a trovare le coperture per riforme strutturali), ma anche più ‘spendibili’ nei confronti degli elettori che si sono visti ricompensati per il loro voto con incentivi o misure una tantum. Da diverso tempo la Fondazione Gimbe denuncia i tagli alla sanità sebbene Meloni rivendichi di aver investito più di tutti. La realtà è ben diversa, come dimostra il rapporto tra spesa sanitaria e Pil, destinato a ridursi gradualmente nei prossimi anni dall’attuale 6% al 5,9% nel 2027, al 5,8% nel 2028 e al 5,7% nel 2029. E le università non se la passano certamente meglio, tra definanziamento e precariato. Quest’anno ricercatori e studenti hanno denunciato la riduzione del Fondo di Finanziamento Ordinario prevista nell’ultima legge di bilancio che ha tagliato 500 milioni nel 2024 e oltre 700 milioni nei tre anni successivi. È vero, come accennavi anche tu, che la situazione a cui assistiamo oggi – con gli ospedali e gli atenei al collasso – è il risultato di anni di mancati investimenti e politiche inadatte e sarebbe sbagliato attribuire le responsabilità solamente a questo governo. Tuttavia le azioni messe in campo finora non hanno di certo invertito la rotta, anzi confermano il fatto che sanità, università e ricerca continuano a non essere percepite come una priorità. Checché ne dica Meloni.
Giulia Casula, redattrice area politica
Anche per oggi è tutto.
Grazie per averci accompagnato fino a qua. A lunedì prossimo con Rumore,
Francesco Cancellato